di Michelangelo Longo
Quando si parla di canto tradizionale spesso si ha la stessa sensazione di quando si tira fuori dalla naftalina un vestito vecchio e ci chiedi perché mai lo si sia conservato. Ci si ricorda che un tempo lo si trovava meraviglioso, ma ci si rende conto che invece ora occupa solo spazio nell’armadio. Gianni Aversano ha una dote straordinaria: prende quel vestito e lo torna a rendere meraviglioso come il giorno in cui è stato comprato.
Gianni è attore, musicista e cantante. Canta e fa cantare le canzoni di Napoli, ridando vita a testi e a musiche che oggi non si comprendono più perché se ne è semplicemente dimenticato il senso profondo.
Aversano fonda nel 1997 il trio Napolincanto, che riceve il premio Histonium per l’impegno artistico e culturale finalizzato alla riscoperta della bellezza e del messaggio universale della canzone napoletana. Numerosi gli spettacoli nel mondo: New York, Circolo Polare Artico, Estonia, all’Università di Harvard e ovviamente tutta l’Italia. Ideatore del Meeting della Canzone Napoletana, 8 dischi all’attivo, la sua fatica più recente è Gobbosnob, esilio napoletano dell’insaziabile Leopardi con cui racconta gli ultimi quattro anni di vita del poeta a Napoli.
Nello spettacolo Spate ammore resate devuzione ripercorre un itinerario storico dal 1700 a oggi, cogliendo aspetti diversi: Dio, l’amore, la resistenza del Sud agli invasori piemontesi e francesi, la speranza.
Partiamo da considerazioni più generali. Quanto secondo te l’arte può influire sulla vita di tutti i giorni?
La ninna nanna è il segno dell’amore più grande che subito percepiamo. Il canto di nostra mamma è arte. È fonte di gioia, di pace. L’artista è chi consapevolmente, o spesso senza saperlo, può ridare questo amore più che la propria “artigianeria”.
E la bellezza?
La bellezza dà quel colpo al cuore che lo fa aprire, rendendolo capace di accogliere il resto che essa porta dentro in modo misterioso. Il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) invoca questa cara beltà aspettandosi l’abbraccio che desidera ma che non trova. Gli uomini prendono la forma di ciò che venerano, e cosa c’è da venerare se non la bellezza? Il problema è che occorre sempre più qualcuno che la “sveli”, che la indichi: svegliati e guarda! Questo dicono per esempio tante canzoni napoletane.
La percezione che si ha, ascoltandoti, è che non vi sia solo un aspetto tecnico, ma che tu canti e reciti sforzandoti di trasmettere anche il senso profondo di quanto canti. È questo il segreto della bellezza dei tuoi spettacoli?
Sarò l’ultimo dei cantanti, ma occupo una delle prime posizioni tra quei pochi che hanno chiara la coscienza di ciò che fanno e di quello che hanno tra le mani. Molte volte non solo il senso profondo, ma nemmeno il rispetto del testo viene messo in scena. Io sono stato educato dal Servo di Dio don Luigi Giussani (1922-2005) a questo andare a fondo delle produzioni umane e restituisco questo dono per quel che mi compete, ossia affrontando la tradizione partenopea, tanto conosciuta, ma tanto sfigurata.
Ultima domanda. Metti in scena anche sanfedisti e briganti. Che idea ti sei fatto della loro epopea?
Non mi interessano i “neoborbonismi” nel senso del nostalgismo monarchico. M’interessa invece capire cosa animasse quegli uomini che lottavano per un ideale. Contro le ideologie, insomma, e per una seria ricostruzione storica. Mi è servito tanto il sito Cristianità quando insegnavo Storia e questo mi ha aiutato ad andare al fondo di quei fatti, così come per le produzioni poetiche sono andato al fondo del desiderio e del dramma di quegli uomini che scrivevano. Un altro sole più bello è il tuo volto e io cerco quello per vincere la tristezza. Questa è ’O sole mio, spesso erroneamente letto come un inno al Sole.
Sabato, 18 gennaio 2020