Di Belacqua si dice che non ci fosse a Firenze qualcuno pigro e negligente come lui. Dante lo incontra nell’Antipurgatorio tra i lenti a pentirsi
di Leonardo Gallotta
Dante, tutto intento a parlare con Manfredi e a meditare sulla di lui sorte, non si era accorto del tempo trascorso. Tre ore erano infatti passate e Dante con Virgilio e il gruppo degli scomunicati è giunto (siamo nel canto IV) al luogo precedentemente richiesto alle anime, il punto cioè dell’inizio della salita al monte.
Si tratta di uno stretto sentiero tagliato nella roccia e per descriverne la ripidezza Dante cita quattro luoghi : 1) Sanleo, piccolo borgo presso San Marino, arroccato su un alto e scosceso colle; 2) Noli, cittadina della riviera ligure di ponente, circondata da monti erti e di difficile accesso; 3) Bismantova, monte dalle pareti a picco a sud di Reggio Emilia; 4) Cacume, monte del gruppo dei Lepini presso Frosinone. Dice infatti: “Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,/ montasi su in Bismantova e ‘n Cacume/con esso i piè; ma qui convien ch’om voli”. Non certo con le ali, ma, specifica Dante, per salire non bastavano i piedi: occorreva pure l’ausilio delle mani.
Giunti allo sbocco del sentiero incavato, Virgilio invita Dante a continuare il cammino fino ad un balzo che cinge tutt’attorno la montagna. Qui arrivati i due poeti si pongono a sedere riguardando con soddisfazione la via percorsa. Dante allora alza gli occhi verso il sole e si accorge, stupito di ciò, di essere colpito dai suoi raggi alla sua sinistra. Virgilio, intuendo la perplessità di Dante, gli spiega che essi si trovano nell’emisfero opposto a quello abitato; se si guarda verso oriente, il sole che passa verso l’equatore, risulta a destra per gli abitanti dell’emisfero boreale, a sinistra per chi guarda dall’emisfero ove i due poeti si trovano.
Soddisfatto della spiegazione, ricca di riferimenti astronomici, Dante chiede a Virgilio quanto cammino dovranno ancora fare, dal momento che la montagna è così alta che gli occhi suoi non ne vedono la sommità. Virgilio risponde che la salita, nel Purgatorio, è tale che all’inizio presenta notevoli difficoltà e tuttavia, man mano che si sale, esse difficoltà divengono più lievi. Quando a Dante il procedere sembrerà così facile come quello di una barca che va secondo corrente, ciò significherà che è giunto alla fine del suo cammino. L’allegoria è chiara: l’ascensione che diventa sempre meno grave man mano che si procede mostra che, all’inizio, sono difficili da vincere gli ostacoli materiali che si oppongono all’ascesa spirituale e che poi non mancheranno gli interventi soprannaturali (la”scorta saggia” che mostrerà la strada), se verranno meno le forze personali.
Non appena Virgilio ha finito di parlare, risuona una voce che dice: “Forse / che di sedere in pria avrai distretta!”, cioè “Forse avrai bisogno di fermarti prima!”. I due poeti vedono allora un grande masso di cui subito non si erano accorti. Ad esso si avvicinano e scorgono, seduti all’ombra dietro al gran “petrone”, un gruppo di anime in atteggiamento neghittoso tra le quali una in particolare colpisce Dante che, rivolto a Virgilio, dice: “O dolce segnor mio, adocchia/ colui che mostra sé più negligente/ che se pigrizia fosse sua serocchia”. Allora l’anima si volge e dice: “Or va tu su, che se’ valente!”
In queste prime parole c’è un tono canzonatorio che caratterizzerà il colloquio tra i due. È comunque una canzonatura bonaria, come si fa tra amici, senza ironia maligna. Dante poi, volgendosi a lui, ne fa il nome: si tratta di Belacqua, a cui Dante , premessa la sua contentezza per averlo visto ormai salvo, chiede spiegazione sul suo stare lì, nel primo balzo, all’ombra del gran “petrone”. Belacqua riferisce al poeta che lui e tutte le anime lì presenti sono state negligenti in terra, arrivando al pentimento solo verso la fine dei loro giorni. Ora devono rimanere lì, nell’Antipugatorio, tanto quanto è stato il tempo della loro vita. Il canto si chiude con l’invito di Virgilio a riprendere il cammino, perché ormai era giunto il mezzogiorno.
Sul personaggio di Belacqua vale la pena di riferire ciò che di lui dice l’Anonimo Fiorentino: “Questo Belacqua fu uno cittadino di Firenze, artefice, e facea cotai colli di liuti e di chitarre, ed era il più pigro uomo che fosse mai; e si dice di lui, ch’egli venia la mattina a bottega, e ponevasi a sedere, e mai non si levava se non quando egli voleva ire a desinare e a dormire. Ora l’Auttore fu forte suo domestico; molto il riprendea di questa sua negligenza, onde un dì, riprendendolo, Belacqua rispose con le parole di Aristotile: ‘Sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens’. Di che l’Auttore gli rispose: ‘Per certo se per sedere si diventa savio, niuno fu mai più savio di te’ “.
Mi piace, in fine, concludere sul canto IV con le parole di Umberto Bosco: “Sul piano lirico-drammatico quello di Belacqua è uno tra i tanti episodi nei quali il poeta si abbandona al ricordo della Firenze perduta e della gioventù finita. A proposito di ‘domesticità’, è da notare nell’episodio di Belacqua il contrasto tra l’impegno intellettuale e morale delle altre parti del canto, e l’affettuosa canzonatura e la malinconia, lontane da energiche prese di posizione, di quell’episodio; tra il linguaggio alto di quelle e l’andamento colloquiale del dialogo tra i due amici; tra la portata universale delle une e la decisa fiorentinità dell’altro, cittadinesco anche nel gusto delle battute mordaci”.
Sabato, 12 agosto 2023