Diamo per scontato che una lingua antica sia ipso facto una lingua morta. È un pregiudizio che non tiene conto di quante parole latine permangano nell’uso corrente e dell’utilità che l’antica lingua può ancora dimostrare nel mondo moderno.
di Stefano Chiappalone
«Il prete ha dato una benedizione poetica: Il Signore ti benedica e ti dia pace…»
«Era in latino»
«Non conosci il latino? È qualcosa a cui dovremmo rimediare, non credi?»
(Braveheart)
Ho visto e rivedrei decine di volte Bravehart (1995), uno dei capolavori del regista statunitense Mel Gibson. Di tanto in tanto vado a rivederne qualche spezzone, tra cui il dialogo del piccolo William Wallace con lo zio Argyle, che all’indomani della morte del padre si prende cura di lui e lo ammonisce sull’importanza del latino, che provvederà a insegnargli insieme al francese e all’uso della spada.
Lo stesso Gibson, come è noto, ha affrontato una sfida non da poco nel girare un intero film in lingue considerate morte. Ne La Passione di Cristo (2004) si sente parlare soltanto in aramaico, ebraico e latino per l’intera durata. Un Gesù o un Pilato che parlassero italiano o inglese avrebbero avuto inevitabilmente un effetto più “finto”. Infatti una lingua è espressione di un mondo, di un popolo, e non è fatta solo di significato (traducibile) ma anche di suono (intraducibile). Non a caso la penisola era definita da Dante Alighieri (1265-1321) il «bel paese là dove il sì suona» (Inferno, XXXIII,80).
Quando non spaventa, l’antica lingua è considerata inutile. Eppure mi permise di superare il maggiore ostacolo nell’apprendimento di una lingua moderna, quando all’università affrontai un esame di tedesco – altra lingua che per molti italiani è sinonimo di difficoltà, neanche venisse chiesto loro di imparare parole impronunciabili come questa di ben 79 lettere: «Donaudampfschiffahrtselektrizitätenhauptbetriebswerkbauunterbeamtengesellschaft». Naturalmente tutti avevano paura delle declinazioni e dei casi, me compreso, finché non scoprii che il tedesco ne ha meno del latino. Le declinazioni, spauracchio di tanti studenti: rosa, rosae, rosae… eccetera – anzi, et coetera, una delle tante espressioni latine che ancora usiamo senza neanche accorgercene più. Per inciso: a sua volta l’alfabeto greco può agevolare l’apprendimento dell’alfabeto cirillico e quindi di varie lingue slave.
Forse vale la pena chiederci se masticare un po’ la lingua di Marco Tullio Cicerone (106 a.C.-43 a.C.) non ci aiuti a conoscere meglio anche la nostra. Tanto per cominciare, chi obietta la presunta inutilità del latino, pone la questione in termini di aut aut tra Cicerone e Dante, ma non si rende conto che il suo è un ragionamento a priori. Magari ha studiato in un campus universitario e si è laureato in aula magna, per poi cercare lavoro inviando un curriculum vitae. Quando critichiamo una persona presuntuosa o vanitosa diciamo che ha un ego (cioè, un «io») smisurato. Oppure mandiamo un messaggino, poi dimentichiamo una parte e ne inviamo un secondo, scrivendo «P.S.», vale a dire: post scriptum. Ma a quell’altro messaggio non rispondiamo perché contiene un virus. Giusto per ricordare che del latino facciamo uso ad abundantiam e inconsapevolmente perché vi siamo immersi. Mi fermo qui perché gli esempi potrebbero continuare in saecula saeculorum – espressione liturgica che avete compreso tutti senza difficoltà. Tanta paura per nulla? Il vero ostacolo non è imparare una lingua. Piuttosto, per restare in tema, è un problema di forma mentis.
A chi paragoneremo la presente generazione? A un barbaro tecnologico che, pur avendo accesso a innumerevoli biblioteche, finisce per leggere sempre le stesse due o tre pagine. Ci interessa solo ciò che è funzionale. Abbiamo più titoli di studio dei nostri genitori e dei nostri nonni, bivacchiamo in aule scolastiche e poi universitarie fino alle soglie dei trent’anni, ma le nostre conoscenze e il nostro vocabolario talora sono estremamente limitati. Non è raro imbattersi in diplomati, o persino laureati, i cui vani sforzi di indovinare il congiuntivo periscono miseramente in un «se avrei». La lingua di Cicerone sarà superata, ma almeno non presumiamo di parlare la lingua di Dante. Il Sommo Poeta si rivolterebbe nella tomba.
Sabato, 23 Gennaio 2021