di Maurizio Brunetti
«Un uomo da solo può fermare la storia. Può spostare le montagne». La frase campeggiava su un poster di molti anni fa, allegato al settimanale Il Sabato. Il manifesto ritraeva il giovane che il 5 giugno 1989, solo e disarmato, osò ostacolare l’avanzata dei carri armati per le strade di Pechino, nei giorni in cui il regime comunista cinese reprimeva brutalmente la protesta popolare di piazza Tienanmen.
Fra gli uomini rivelatisi capaci di opporsi all’onda apparentemente trionfante della storia, sono certamente da annoverarsi Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) e Ronald Wilson Reagan (1911-2004), 40° presidente degli Stati Uniti d’America. Tutti e due erano convinti che l’«impero del male» social-comunista potesse essere sconfitto e, agendo spesso in senso contrario ai “consigli prudenziali” espressi persino da una parte del proprio entourage, operarono – ognuno nel proprio ambito – per accelerare l’implosione di quell’impero ideologico-militare.
Sebbene esistano sul personaggio opere libere da pregiudizi ideologici negativi, elogiare in Italia Reagan, che ha concluso la propria vita terrena il 5 giugno di quattordici anni fa, suona ancora molto scorretto: oltre al fiero anticomunismo, dalle nostre parti non sono mai state particolarmente apprezzate le sue politiche fiscali di contenimento dello Stato federale a favore di una maggiore libertà d’intrapresa, tipicamente interpretate come «un piacere fatto ai ricchi». Qualcuno dei lettori forse ricorderà l’espressione «edonismo reaganiano», con la quale s’individuava nell’individualismo sfrenato la cifra ideale degli Stati Uniti negli anni della presidenza Reagan. Poco importa, a quanto pare, che in quel decennio, come ricorda Thomas E. Woods, gli Stati Uniti registrarono un aumento delle donazioni di beneficenza a un tasso annuo di crescita che superava del 55% quello dei 25 anni precedenti, aumento evidentemente correlato alla maggiore liquidità disponibile nelle tasche dei contribuenti.
I funerali di Stato di Reagan avvennero l’11 giugno 2004, giorno dichiarato di lutto nazionale dall’allora presidente in carica George W. H. Bush Jr. Fra gli inni eseguiti in occasione dei riti funebri, figura anche Pilgrims’ Hymn, forse la più eseguita delle seicento e più opere composte dallo statunitense Stephen Paulus (1949-2014). Tra le decine di registrazioni disponibili, quella segnalata qui ha come protagonisti i giovani della University of Wisconsin-Eau Claire che lo eseguono nell’avveniristico Art Museum di Milwaukee. Il connubio particolarmente felice tra musica, intrecci vocali e testo fa di Pilgrims’ Hymn un brano di grande impatto emotivo. Ciò non solo ne ha determinato il successo commerciale, ma ne ha favorito l’inserimento in molti Concert Memorial in ricordo delle vittime dell’Undici Settembre.
L’opera, come verrà spiegato più avanti, può essere interpretata come esempio di compiuto «ecumenismo culturale». Cose che capitano in un Paese dove cattolici, ortodossi ed evangelicali di varie denominazioni combattono fianco a fianco battaglie di civiltà e intessono alleanze invise a qualche teologo nostrano.
Paulus, gentiluomo dell’America profonda – più precisamente del Minnesota – noto per l’affabilità del tratto, creò la melodia di Pilgrims’ Hymn nel gennaio del 1997, mentre lavorava a Three Hermits, opera lirica commissionata dalla Chiesa presbiteriana «House of Hope» della città di Saint Paul, ispirata a una novella di Lev Tolstoj (1828-1910). La melodia avrebbe accompagnato uno dei cosiddetti «Tropari della Grande compieta», la preghiera serale della tradizione ortodossa che inizia con il verso «Trascorso ormai il giorno, ti ringrazio, Signore».
Il librettista, il poeta cattolico Michael Dennis Browne, rimase talmente colpito dalla pregnanza di quella melodia da proporre al compositore di riutilizzarla per le battute finali dell’opera, trasposta, però, di tonalità e su un testo stavolta originale, che avrebbe significato l’avvenuta maturazione spirituale dei protagonisti dopo l’incontro e il miracolo dei tre eremiti cui il titolo dell’opera fa riferimento.
Nacque così Pilgrims’ Hymn. Da allora, cori di tutto il mondo lo eseguono come pezzo a sé stante, rammentando a chi ascolta quanto importi l’abbandono alla Divina Provvidenza giacché, se sarà grande la fiducia in Dio, tali saranno anche le grazie che da Lui riceveremo.
Di seguito, una traduzione italiana redazionale della «preghiera» di Michael Dennis Browne seguita dal testo originale.
Già prima che invochiamo il tuo nome
Per chiederti qualcosa, Signore,
Quando ancora siamo in cerca delle parole per esaltarTi,
Tu ascolti la nostra preghiera.
O amore incessante e infinito
Che trascende ogni cosa a noi nota.
Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo
Quando l’oscurità ci avvolge
Noi sussurriamo il Tuo nome
E, sempre, nei giorni che scorrono veloci
Noi confidiamo in Te.
La Tua grazia è infinita, infinita
Al di là di ogni sogno mortale.
Ora e sempre
Nei secoli dei secoli
Amen
* * *
Even before we call on Your name
To ask You, O God,
When we seek for the words to glorify You,
You hear our prayer;
Unceasing love, O unceasing love,
Surpassing all we know.
Glory to the father,
and to the Son,
And to the Holy Spirit.
Even with darkness sealing us in,
We breathe Your name,
And through all the days that follow so fast,
We trust in You;
Endless Your grace, O endless Your grace,
Beyond all mortal dream.
Both now and forever,
And unto ages and ages,
Amen.
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Sabato, 2 giugno 2018 – Santi Marcellino, sacerdote, e Pietro, esorcista