Il lavoro lo creano gli imprenditori. L’Italia non è un Paese per imprenditori. In Italia manca il lavoro. Ahimè, se non è un sillogismo poco ci manca.
È inutile lamentare l’elevatissimo numero di disoccupati in Italia – su percentuali medie del 12% fino a sfiorare un allarmante 40% tra i giovani e con picchi ancora più elevati nel meridione, – se contestualmente non ci si interroga sulle pre-condizioni necessarie a quello sviluppo autentico che solo consente di “creare” occupazione.
Da decenni ormai l’Italia non è più un Paese per imprenditori. Infatti:
– la pressione fiscale elevatissima scoraggia gli investimenti: siamo al paradosso di imprese che distruggono sistematicamente ricchezza e vengono tenute in vita artificialmente col denaro “pubblico” (cioè preso dalla tasche dei contribuenti), mentre imprese sane e promettenti non riescono a crescere perché se si azzardano a produrre utili se li vedono confiscati dallo sceriffo di Nottingham. Anzi, anche se non producono utili, perché l’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) la devono pagare comunque anche se in perdita, scoraggiando così le assunzioni;
– i giovani talenti e le imprese, specie quelle medie e piccole, hanno difficoltà a trovare finanziatori per crescere: se Bill Gates fosse nato in Irpinia probabilmente sarebbe ancora nel suo garage;
– la corruzione ed il “capitalismo” clientelare, che della libera e leale concorrenza rappresentano una triste caricatura, fanno crescere non chi meglio sa servire il cliente finale ma chi più è intrallazzato con i pubblici poteri. A danno del consumatore sempre, e del contribuente molto spesso, come negli appalti pubblici;
– l’ipertrofia legislativa insieme ai tempi biblici della giustizia vanno a vantaggio dei furbi, danneggiano gli onesti, scoraggiano gli investimenti e gli scambi;
– le infiltrazioni malavitose, endemiche nel meridione ma oramai diffuse anche al Nord, penalizzano le imprese oneste e ostacolano lo sviluppo;
– un sistema scolastico ipertrofico e statalista, inefficiente ed inefficace vede l’Italia arretrare anno dopo anno nelle classifiche internazionali che misurano il livello qualitativo dell’educazione impartita, impedendo la formazione di quel “capitale umano” necessario alla crescita;
– una mentalità diffusa vede spesso con sospetto, ostilità ed invidia il successo economico, preferendole una redistribuzione socialistica dei redditi prodotti.
La geremiade potrebbe proseguire a lungo, ma è sufficiente per confermare l’assunto iniziale: no, l’Italia non è davvero un Paese per imprenditori.
Cosa potrebbe fare lo Stato? Come ricordava Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Centesimus Annus del 1991 (nr. 42), ciò che occorre è un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia […], un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale.
Una semplificazione legislativa, assicurare tempi rapidi alla giustizia, un fisco equo pro-crescita, un controllo del territorio contro la malavita, promuovere una riduzione del perimetro pubblico nella vita economica-sociale ed un’effettiva libertà scolastica che promuova l’eccellenza dell’istruzione: questo occorre all’Italia di oggi per uscire dalle secche della crisi.
Lo Stato potrebbe davvero fare molto per il bene comune, agendo sulle pre-condizioni favorevoli allo sviluppo economico e sociale del Paese, nel rispetto del principio di sussidiarietà. Altro che reddito di cittadinanza, aumento della spesa pubblica, uscita dall’euro con maxi-svalutazione del cambio. Così facendo, infatti, non si andrebbe alle radici del problema: la torta non crescerebbe, si avrebbero solo effetti redistributivi.
E l’agenda politica del nostro Paese? Tabula rasa, come pure la classe dirigente, non solo politica. L’Italia non è davvero un Paese per imprenditori.
Maurizio Milano