Da Avvenire dell’11/04/2021
Stanno ammainando la bandiera, pronti a ripiegare le tende da tutti i fronti caldi della lotta al terrore. Dopo oltre vent’anni di guerra non convenzionale, le forze occidentali stanno aggiornando gli ordini di battaglia. Urgono altre sfide. C’è il fronte del Pacifico e c’è il confine orientale d’Europa ad imporre divisioni blindate e truppe corazzate. La guerra al jihadismo africano è ormai una «distrazione » che non ci si può più permettere. Si subappalta a contractor, a nuovi mercenari e ad eserciti misti locali.
Il caso del Mozambico è lampante: ci sono passati i russi del Wagner Group, i sudafricani del Dag, piccole aliquote del corpo speciale del Sas britannico e mercenari ucraini assoldati da Paramount. Ora sono sbarcati un pugno di marine americani. Sperano di rimediare al disastro recente, istruendo i commando della marina mozambicana. Presto arriveranno 60 consi- glieri militari portoghesi. Anche i francesi, incantati dalla manna petrolifera che frutterà 20 miliardi alla Total, sembrano sul punto di accodarsi. Ma sono gocce nel mare, a fronte di 2mila jihadisti locali, pronti a colpire anche in Tanzania e in Congo. Gli occidentali non fanno più sul serio. È finito il tempo dei grossi battaglioni. Ora ci si limita a lavori di consulenza e di accompagnamento delle forze locali. Un modello applicato alla lettera alla task force Takuba, da poco operativa nel Sahel, fatta di piccoli pacchetti di forze speciali europee integrati in unità leggere d’intervento locali. Al “formato” partecipa anche l’Italia, con 200 commando, 20 veicoli e 8 elicotteri, che si muoveranno dalla base di Ansongo verso la frontiera fra il Mali e il Burkina. Takuba è quasi un’illusione ottica.
Allinea 600 uomini, metà dei quali francesi. È tutto quello che riesce ad esprimere militarmente l’Europa, in un teatro vasto quasi cinque volte l’Italia. Parigi ha chiamato a raccolta gli alleati: Takuba è la cartina di tornasole utile a rimpatriare il contingente convenzionale di 5.100 uomini. Il 2022 sarà anno di presidenziali in Francia e la missione nel Sahel non gode più dei favori dell’opinione pubblica. Produce scarsi successi.
Costa più di un miliardo di euro l’anno e incassa perdite crescenti. Chi tiene più il fronte? I francesi non ce la fanno. Non sono nemmeno autonomi. Nel 2020, il 40% delle loro missioni di intelligence, di sorveglianza e di ricognizione e il 30% dei trasporti di loro materiali e truppe è stato garantito dal Comando statunitense per l’Africa (Africom). Solo che, pochi giorni fa, il maggior generale Joel K. Tyler, direttore delle operazioni dell’Africom, e il suo collega della logistica, contrammiraglio Kevin Jones, hanno portato cattive notizie. I fondi del Pentagono destinati all’Africa e al Medio Oriente sono stati dirottati in buona parte al teatro Indo-Pacifico. Anche le forze speciali seguiranno. Fra il 2006 e il 2016 erano aumentate in Africa del 1.600%. Adesso, metà circa dei commando si sta preparando a uno scontro frontale con Russia e Cina. I numeri dicono tutto. Nel 2018, c’erano nel Continente nero 7.200 militari e contractor americani. Oggi, dopo il ritiro dalla Somalia, sono poco più di 6.400.
La rete di basi militari è al tempo stesso capillare e sguarnita. L’unico sito ufficiale è il mega-complesso di Gibuti, intorno al quale ruotano i siti aerei satelliti di Chabelley, da lì poco distante, e di Manda Bay, in Kenya. Esistono altri 34 “fortini”, molti dei quali occupati solo in maniera sporadica. Mancano soldi, uomini e, soprattutto, interesse politico. Tutti i siti, tranne uno, a Gaborone, in Botswana, sono ubicati fra Dakar, in Senegal, e Mombasa, in Kenya. Località strategiche per picchiare sui terroristi. Venti piattaforme di contingenza, nello stesso arco centrale, permetterebbero alle forze speciali di disporre di piccole basi occulte. Bisognerebbe riempirle per fare massa e produrre risultati.
Foto da altalex.com