Di Sergio Balardinelli da Il Foglio del 19/07/2024
Che cosa significa parlare di tradizione? Quale è il suo elemento determinante e discriminante? E’ più corretto parlare di tradizione al singolare o al plurale? Esiste ancora una tradizione occidentale? Molto in generale, “tradizione” è qualcosa che merita di essere tramandato alle generazioni future: usi, costumi, memorie, norme che vengono dunque considerati dai più, non necessariamente da tutti, come un valore e reiterati in continuazione in un discorso che li mantiene sempre attuali. Una tradizione viva può e deve mettere tranquillamente nel conto anche una certa dose di contestazione. Ma può anche succedere che per qualsiasi motivo la suddetta reiterazione diventi stantia ripetizione e quindi che la tradizione si estingua, trasformandosi in un feticcio, una forma vuota, un peso sulle spalle delle nuove generazioni del tutto incapace di suscitare rispetto e creatività. In questi casi è meglio liberarsene. Come disse Gustav Mahler, “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Il che significa che la tradizione è precisamente ciò che resta vivo rispetto allo scorrere della storia e nonostante lo scorrere della storia. Niente a che fare dunque con il tradizionalismo di coloro che restano abbarbicati a un passato privo di ogni vitalità.
I “classici”, per fare un esempio, sono l’elemento vivo e vivificante della nostra cultura; vivificano e, vivificando, si trasformano a loro volta, mostrando spesso alle generazioni presenti un volto rimasto per lo più sconosciuto a quelle passate. Basti guardare alla tradizione religiosa cristiana: la riprova di un annuncio, che poi è una persona, Gesù Cristo, capace di rimanere sempre lo stesso, sempre contemporaneo, pur manifestandosi in forme assai diverse nel corso dei secoli. In questo senso si potrebbe dire che il verbo latino tradere contiene anche un prezioso riferimento alla speranza, una sorta di apertura di credito nei confronti del futuro. Nontutto ciò che passa è destinato a finire; ciò che veramente conta, ciò che veramente amiamo rimane. “Il resto è scoria”, direbbe Ezra Pound. Di qui la domanda cruciale: che cosa amiamo veramente oggi? Amiamo il fuoco o le ceneri? Siamo ancora capaci di amare veramente qualcosa o ci accontentiamo di soddisfare i nostri desideri?
Almeno per la tradizione cristiana, queste domande hanno una risposta tanto scontata quanto cruciale: Gesù Cristo. Chi tiene gli occhi su di lui non ha il problema di un passato che opprime né quello di un futuro che incute paura; non teme nemmeno i propri desideri in quanto ne vede il lato buono e vivificante. La persona di Gesù come luce speciale per tutti gli uomini e per tutta la storia che, ponendo al centro la libertà di ciascuno, è capace di valorizzare la pluralità delle stesse tradizioni. E’ per questo che dove il Cristianesimo si è radicato, vedi il nostro occidente, parliamo di tradizioni religiose, politiche, culturali, nazionali, continentali, e dentro ciascuna di queste se ne potrebbero individuare altre. Il pluralismo che contraddistingue la cultura occidentale si riflette insomma anche sulle sue tradizioni. Fermo restando ovviamente che ciò non vale allo stesso modo per il mondo intero. I motivi di questa differenza sono molteplici e spesso intrecciati tra loro, ma credo si possa dire con buona approssimazione che la tradizione religiosa gioca in proposito un ruolo decisivo. Nel mondo islamico, ad esempio, dove la differenziazione della religione dalla politica e dalle altre sfere della vita sociale e culturale è assai ridotta, il peso della tradizione religiosa è assai più potente e pervasivo che nel mondo occidentale, dove in ogni caso il Cristianesimo lo è stato per secoli, prima che, anche a prezzo di conflitti spesso cruenti, le principali forme culturali dell’occidente conquistassero la loro autonomia, generando “tradizioni” politiche, giuridiche, scientifiche, artistiche che vivono ormai di vita propria. E’questo il lascito principale della secolarizzazione cristiana. Un lascito che potrebbe gettare una luce particolare proprio sulla ricerca di un “criterio discriminante” tra le diverse tradizioni. Provo a spiegarmi. Sappiamo bene che, a tutte le latitudini, le grandi tradizioni si costruiscono su una molteplicità di elementi: la geografia, la lingua, la nazione, la cultura, la religione. Tra questi elementi, quando si tratta di identificare una tradizione, la religione è certamente quello “discriminante”, quello cioè che influisce di più sugli altri. Ma non sempre. Basti pensare alla vicenda del nazionalismo del secolo scorso, culminato e naufragato nella Prima guerra mondiale: un esempio eloquente di radicalizzazione dell’elemento nazionale, tale per cui tutti gli altri elementi, compresa la religione, vengono, diciamo così, convogliati al suo servizio. Ebbene prendere sul serio la secolarizzazione cristiana dell’Europa e dell’occidente significa secondo me evitare precisamente questo genere di ipostatizzazioni, tendenti per lo più a generare conflitti insanabili, esclusioni, nonché tronfie rivendicazioni di superiorità. Tali ipostatizzazioni ovviamente si verificano anche all’interno della tradizione cristiana, il nazionalismo ne è un esempio al pari dei totalitarismi o dell’imperialismo russo contemporaneo, ma, a rigore, dopo Gesù Cristo, né la geografia, né la lingua, né la nazione, né la cultura, né la religione dovrebbero più venire utilizzate in questo modo. Come ci ha insegnato Papa Benedetto XVI, la chiusura, l’ostracismo, la violenza sono contrari alla natura del Dio cristiano. Detto questo, restano però due problemi piuttosto difficili, che mi limito soltanto ad accennare. Il primo riguarda la crisi della religione cristiana in Europa che rischia purtroppo di trasformare in religione altri elementi culturalmente importanti come la scienza e la politica (si diceva appunto di ipostatizzazioni); il secondo riguarda la crescente aggressività che si va manifestando nel mondo nei confronti di un Cristianesimo che culturalmente appare sempre meno capace di difendersi. Chi ha orecchi per intendere intenda.