Di Federico Rampini dal Corriere della Sera del 18/01/2023
Il termine più usato nelle analisi americane sull’Ucraina ormai è attrition o logoramento. Chi stia logorando chi, non è chiaro. Alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato non sembrano esserci illusioni su una vittoria totale di Kiev o su un negoziato di pace in tempi brevi. Un paragone inquietante che comincia ad affacciarsi è con la guerra di Corea, combattuta dal 1950 al 1953, in realtà mai conclusa (ad oggi non esiste un trattato di pace). Anche perché la Russia può ancora chiamare al fronte centinaia di migliaia di riservisti, così come Mao potè schierare sul fronte coreano tre milioni di soldati; l’inferiorità «demografica» dell’Ucraina pesa. Questo chiama in causa la dimensione degli aiuti occidentali (sempre inferiori alle promesse), e l’efficacia delle nostre sanzioni (l’economia russa soffre meno di quanto prevedessimo). Se questo conflitto dovesse avere una durata «coreana», anche la nostra tenuta e i mezzi dispiegati andranno ripensati su un orizzonte lungo. Ne saremo capaci? Vladimir Putin ha sbeffeggiato quegli esperti «occidentali, e perfino qualche russo, che prevedevano un’economia russa in crollo del 10% o 20%». Stando ai suoi dati il calo del Pil nel 2022 è stato del 2,5%, un arretramento netto ma non catastrofico. Non gli impedisce di pianificare un allargamento delle sue forze armate fino a un milione e mezzo di soldati, cioè cinquecentomila in più rispetto a un anno fa. La superiorità demografica lo rende fiducioso: la Russia ha tre volte e mezzo la popolazione dell’Ucraina, perciò pensa che a logorarsi per primi saranno gli altri. I dati ufficiali di Putin forse sottostimano l’impoverimento russo. Le sanzioni che contano, quelle contro le esportazioni di gas e petrolio, sono arrivate tardi ma a dicembre hanno contribuito a un calo del 17% degli introiti energetici di Mosca. Il ruolo della Russia sui mercati mondiali diventa marginale mentre cresce la sua dipendenza dalla Cina. Perfino la sua influenza in Asia centrale regredisce. I danni che Putin infligge al suo Paese nel lungo periodo diventeranno sempre più drammatici. Ma un regime autoritario affronta il «lungo periodo» in modo diverso da noi. In settant’anni dalla fine della guerra, la monarchia rossa che domina la Corea del Nord ha privato il suo popolo di tutto il benessere e il progresso di cui è stata capace la Corea del Sud. Però la dittatura di Pyongyang è ancora lì, a destabilizzare l’Estremo Oriente con missili e atomiche. Le lezioni della guerra di Corea sono molteplici, anche per ciò che fecero e non fecero gli Stati Uniti. Nel 1950 erano una nazione stanca di conflitti, molti dei combattenti nel sud-est asiatico erano reduci della Seconda guerra mondiale. Quella sì era una «guerra per procura», con la discesa in campo dell’armata rossa cinese. Però il generale americano Douglas MacArthur che propose di colpire Pechino fu licenziato in tronco: aveva violato (verbalmente) quel tabù dell’arma nucleare che Putin sembra ignorare. Oggi le ritrosie dell’Occidente sono superiori ad allora. Il pandemonio dei nostri pacifisti contro le forniture di armi a Kiev ha finito per nascondere la realtà dei fatti: gli aiuti militari procedono con il contagocce, con tali e tante limitazioni che la resistenza ucraina si difende con un braccio legato dietro la schiena. L’ultimo massacro di civili in un palazzo sventrato da un mega-missile russo ci ricorda che la Nato non ha mai preso in considerazione una difesa dello spazio aereo, senza la quale il combattimento è impari, tragicamente asimmetrico. In Germania il governo di Olaf Scholz promise una svolta storica, nuovi investimenti per la difesa, per essere all’altezza della minaccia russa: finora non è accaduto nulla. L’ex ministra della Difesa, passata alla storia per la sua offerta iniziale di soli elmetti agli ucraini (con cui proteggersi dai missili russi) ha dovuto dimettersi per manifesta incompetenza. La vicenda dei tank Leopard è una beffa crudele: per mesi Berlino ne ha bloccato la fornitura a Kiev, perfino ad opera di altri Paesi. Domani il neoministro tedesco della Difesa accoglierà nella base aerea di Ramstein un vertice di cinquanta Paesi (Nato e amici) e si vedrà se finalmente vengono sbloccati aiuti in attesa da mesi. Intanto Erdogan vuole rinviare a dopo la sua rielezione l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. È reticente perfino l’America, che i pacifisti a senso unico hanno sempre descritto intenta ad aizzare gli ucraini. In realtà le forniture americane sono ben al di sotto di quanto sarebbe necessario per fermare le stragi. È importante il gesto simbolico con cui il Pentagono accoglie per la prima volta dei soldati ucraini sul proprio territorio, per insegnargli a usare le batterie anti-missili Patriot. Ma per il momento l’America di queste batterie ne fornisce una sola, sulle tante decine di cui dispone. Gli Stati Uniti, con una potenza militare molto superiore agli europei ma dilatata su troppi Continenti, troppe basi, troppi impegni, soffrono di limitazioni non molto diverse dagli altri Paesi Nato. La loro industria bellica è dimagrita rispetto agli anni della Guerra fredda. Per fornire munizioni a Kiev gli americani «raschiano il fondo del barile», svuotano depositi in Israele e Corea del Sud. Le forze armate ucraine esauriscono munizioni a un ritmo doppio rispetto all’intera produzione dei Paesi occidentali. Questa è una situazione diversa da quella «guerra per procura», che secondo i filo-putiniani vede un’America che manipola l’Ucraina per dare un colpo all’impero russo. Biden in realtà procede con una cautela estrema. Il presidente americano ha atteso quasi un anno prima di cominciare ad ammorbidire la sua posizione su un tema cruciale: aiutare le forze di Kiev a colpire anche il territorio della Crimea, che Putin usa come base di lancio per degli attacchi devastanti. La storia forse sarà severa con la prudenza di Biden, che può aver contribuito alla vulnerabilità della popolazione ucraina. Ma l’alternativa a Biden che cos’è? Alla Camera dei deputati la nuova maggioranza repubblicana, ricattata da un manipolo di ultrà trumpiani, minaccia di prendere in ostaggio perfino il bilancio della difesa, pur di fare ostruzionismo contro un presidente democratico. Quando discutiamo di «logoramento», la prospettiva temporale va corretta. Questa è una guerra esplosa dal 2014 con l’annessione della Crimea da parte di Putin. Lui ha dimostrato di poter sopravvivere al nono anno di conflitto, e alle prime ondate di sanzioni. Una parte degli occidentali sembrano esausti dopo undici mesi, pur avendo sofferto una frazione infinitesimale di quel che subisce il popolo ucraino. Anche i più decisi fra noi sembrano essersi illusi in un «determinismo economico»: siamo talmente più ricchi, e più avanzati tecnologicamente, che la sorte di questo conflitto non può essere in dubbio. I rapporti di forze economici contano ma non sono tutto. L’esperto militare Michael Kofman, direttore del Dipartimento di studi sulla Russia al Center for Naval Analyses, ricorda che «il potenziale economico può rimanere solo un potenziale, perché trasformarlo in risultato richiede tanta volontà, e le guerre sono una gara di volontà».