Da “La bianca torre di Ecthelion” del 2/09/2017. Foto da articolo
Invece di scemare d’intensità mentre devasta il territorio che attraversa, l’uragano artificiale e becero del fanatismo ideologico iconoclasta si gonfia ogni giorno che passa. Giovedì 31 agosto la città di Los Angeles ha infatti deciso di cancellare una delle feste nazionali più importanti degli Stati Uniti, il Columbus Day, sostituendolo con una giornata farlocca per ricordare le popolazioni native americane. Sì, perché come da tempo si dice e si sostiene Cristoforo Colombo (1451-1506) non sarebbe nient’altro che un criminale, reo di avere falcidiato sommariamente i poveri “indiani” che vivevano pacifici prima che il navigatore genovese li consegnasse alla mercé degli europei senza scrupoli. Chrissie Castro, vicepresidente della Los Angeles City-County Native American Indian Commission, ha capitanato l’iniziativa affermando con sicumera che il Columbus Day altro non è se non una «[…] celebrazione, sponsorizzata dallo Stato, del genocidio delle popolazioni indigene». Ma basterebbe anche solo un bigino di storia per risponderle per le rime.
Il Columbus Day celebra la memoria dell’approdo dell’ammiraglio nel Mondo Nuovo, il 12 ottobre 1492, e negli Stati Uniti si osserva il secondo lunedì di ottobre, quest’anno il 9. A seguito del lavoro di pressione svolto dai Cavalieri di Colombo, la più grande charity cattolica del mondo, e dell’uomo di affari italoamericano Generoso Papa (1891-1950), la ricorrenza fu dichiarata festa nazionale nel 1937, ma è sempre stata osservata sin dai tempi coloniali. Gli statunitensi la sottolineano da sempre con orgoglio perché segna la data di nascita remota del loro Paese. Certo, gli Stati Uniti sono nati ufficialmente molto dopo il 1492, nel 1776, ma a quelle latitudini nessuno è mai stato così sciocco da pensare che il Paese sia nato sotto il cavolo, come per incanto. Gli Stati Uniti – gli statunitensi lo sanno benone – non sarebbe nulla se non fosse per la cultura europea che mezzo millennio fa sbarcò in America con tutti i suoi difetti, ma soprattutto con tutti i suoi pregi. Gli Stati Uniti del 1776 sono figli del proprio passato coloniale e la data d’inizio di quel fondamentale periodo d’incubazione è proprio l’arrivo di Colombo. Toccare l’eredità colombiana significa sputare in faccia a un popolo intero e manomettere la memoria storica. Ma è proprio questo ciò che sta cercando di fare, in realtà da tempo, il relativismo decostruzionista liberal.
Negli anni 1990 il revisionismo politicamente corretto si chiamava “multiculturalismo”. Il suo emblema più noto, quanto risibile, fu il tentativo profuso dallo storico britannico Martin G. Bernal (1937-2013). Specialista di storia cinese, con Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, pubblicato in tre volumi nel 1987, nel 1991 e nel 2006 (Rutgers University Press, New Brunswick [New Jersey]), cercò di decretare la fine di quello che chiamava “modello ariano”, diffuso dagli antichi Greci sino al colonialismo moderno, ovvero il misconoscimento dei fondamentali apporti africani a ciò che noi oggi chiamiamo, e due-tre millenni fa era solo in nuce, Occidente. Una enormità già di suo, ma che poi in altri continuatori della tesi di Bernal si è trasformata nella rivedicazione diretta dell’origine africana della civiltà greca. E oltre che maldestro fu un tentativo pure sottilmente (inconsciamente) perverso, nella misura in cui, pur sembrando superficialmente affermare il contrario, non fa invece che ripetere un pregiudizio “bianco” d’inferiorità sui neri, giudicandoli incapaci di significativi apporti alla civiltà e quindi bisognosi di appropriarsi di quelli di altri.
Ora al “multiculturalismo” si sono sostituiti la “guerra delle statue” e l’autolesionismo dei “cattolici adulti”, ma è lo stesso. Ieri come oggi l’obiettivo è solo quello di spingere gli occidentali a vergognarsi del proprio passato, a chiedere scusa per colpe non commesse, a prostarsi davanti al dio nulla. Se togliete agli statunitensi il rapporto di figliolanza che li lega da sempre all’Europa, gli Stati Uniti svaniscono. Con il grande, enorme rispetto che gli uomini meritano sempre, soprattutto nelle loro manifestazioni culturali e religiosi più vere, quello spazio umano-politico che oggi sono gli Stati Uniti non potrebbe infatti rivendicare alcuna altra origine. Sarebbe impossibile fondarli sulla cultura panteistica, orale e ferma all’età della pietra dei pellirossa (che non conoscevano né la scrittura né la ruota, e dei cavalli nemmeno l’ombra finché non li introdussero i bianchi). Impossibile fondarli sul retaggio dei neri, che nel Nuovo Mondo ci sono arrivati nella tragica condizioni di schiavi. Decisivo invece fondarli sulla cultura europea, l’unica in grado di rispettare e integrare anche i non europei (indiani e neri).
Là dove questo negli Stati Unit non è successo, lo si deve infatti soltanto alla cultura europea sbagliata, o al massimo limitata, che nel Mondo Nuovo è giunta assieme, talora unita in modo inestrivabile, a quella giusta. E quella giusta, come mostra proprio la storia dei Colombo e dei san Junípero Serra Ferrer (nato Miguel José, 1713-1784) che si vuole adesso cancellare, è quella cattolica, sia negli Stati Uniti sia in tutto il continente americano: la cultura che ha creato scuole e ospedali per indiani e neri là dove altri invece voltavano il viso altrove, che non si è macchiata di razzismo e non ha discriminato, che ha contribuito decisamente a fare di mille popoli migranti una nazione di patrioti, e che ha portato neri e indiani persino sugli altari come ricordano per esempio santa Kateri “Caterina” Tekakwitha (1656-1680), metà mohawk e metà algonchina, e il nero san Martino de Porres (1579-1639). Non è un caso che l’odio disfattista dei progressisti si lanci con protervia contro questa storia, comiciando a scardinarla da colui che – spiega lo storico Geo Pistarino (1917-2008) in Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma (Accademia Ligue di Scienze e Lettere, Genova 1990) – firmando usava il nome “Xpo ferens”, colui che porta a Cristo, accompagnato da simboli della Trinità, dello Spirito Santo e di Maria.
Marco Respinti