Gabriele Maspero, Cristianità n. 390 (2018)
Lubomír Mlčoch, Family economics. Come la famiglia può salvare il cuore dell’economia, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2017, pp. 315, € 18,00
La scorsa estate è uscita per i tipi delle Edizioni San Paolo la traduzione italiana, a cura di Francesco Belletti, di Ekonomie rodiny v proměnách času, institucí a hodnot (Praga 2014), un libro interessante, seppure opinabile in alcuni suoi giudizi, sul ruolo della famiglia nell’economia del professor Lubomír Mlčoch, studioso céco, membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che negli ultimi anni ha focalizzato i suoi interessi sull’economia della fiducia, sul bene comune e sui collegamenti tra economia e felicità. In realtà la Family economics è materia di studio per la scuola economica neoclassica di Chicago almeno a partire dal Trattato sulla famiglia (1981) dello statunitense Premio Nobel Gary Becker (1930-2014), ma qui Mlčoch, con l’obiettivo di integrare appieno la famiglia nella teoria economica contemporanea, rivede proprio il presunto utilitarismo della scuola di Chicago per introdurre temi propri di altre discipline (beni relazionali, fiducia, felicità), accodandosi all’istituzionalismo di un altro statunitense Premio Nobel, Oliver Eaton Williamson. La famiglia, come soggetto economico, per questa scuola istituzionale non sarebbe da intendersi astrattamente come una impresa delle tante; né sarebbe possibile ridurre la persona a homo oeconomicus, entrambi assunti delle fallimentari teorie neoclassiche imperialiste, che l’autore in un punto definisce addirittura «marxismo capovolto» (p. 112); ma sarebbe da considerarsi nella sua complessità e da studiare con un approccio che comprenda pure l’etica descrittiva e normativa e la teoria dei valori (cfr. capitolo 1, La famiglia come impresa specifica: un tentativo di includere l’istituzione famiglia nell’economia, pp. 45-68). L’ottica è quella di tornare, in maniera scientifica, all’etimologia e al significato originario della parola economia (oikonomikos: regole della gestione della casa).
Tre Rivoluzioni contro la famiglia
L’autore, allora, riflette sulla storia della famiglia in Europa e racconta di alcuni passaggi che ne hanno causato l’attuale debolezza, dopo secoli di «società tradizionale» in cui essa era stata il cuore pulsante della nostra civiltà, antica e medioevale (cfr. capitolo 2, Il confine tra famiglia e mercato: la teoria della disintegrazione verticale della famiglia, pp. 69-98).
1. La prima aggressione patita dalla famiglia sarebbe stata causata dalla «Rivoluzione industriale capitalistica» che all’incirca dalla metà del secolo XVIII separò il mondo degli affari dalla casa, ovvero il mercato dalla famiglia, generando nei fatti la moderna civiltà industriale e l’economia propriamente detta come disciplina scientifica. Prima di allora, l’economia e la famiglia erano culturalmente una cosa sola, da Senofonte (430-354 a.C.), che coniò per primo il vocabolo oikonomikos, fin quasi a William Petty (1623-1687) e Adam Smith (1723-1790), che avrebbero posto le basi culturali per la svolta. Così, dopo secoli di armonia, nei secoli XVIII e XIX sarebbe avvenuto il passaggio dalla produzione domestica ai rendimenti di scala, dalla specificità dell’homemade al mercato impersonale, cui le attività economiche della famiglia si sarebbero trasferite, con maggiore produttività e preoccupazione per l’efficienza, ma con parallela perdita di capitale sociale, fiducia e beni relazionali (cfr. capitolo 4, La teoria istituzionale dei cambiamenti della famiglia: la famiglia e la sua dipendenza dalla società dei consumi, pp. 117-146).
2. La seconda Rivoluzione, dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), fu quella del cosiddetto Welfare State, un mutamento — durato cinquant’anni — incalzato dalla necessità del mercato del lavoro di avere a disposizione come forza-lavoro individui il più possibile slegati dagli impegni familiari, al fine di una massimizzazione dei profitti. Lo Stato realizzò i sistemi pensionistici, gli asili, i sostegni familiari; uomini e soprattutto donne furono sollevati dai compiti propri della genitorialità e in generale di casa, affinché venissero impiegati full-time nel sistema produttivo. Qui, a dire dell’autore, la disintegrazione della famiglia fu verticale, colpendo la solidarietà intergenerazionale e le relazioni tra i componenti del nucleo: il tempo dedicato ai propri figli e ai propri genitori dalle famiglie a doppia carriera iniziò a essere misurato in termini di mancato profitto-costi-opportunità, e ciò fu legittimato dal mondo accademico con la cosiddetta malattia dei costi dell’economista William Baumol (1922-2017) (cfr. capitolo 5, La teoria istituzionale dei cambiamenti della famiglia: la dipendenza della famiglia dallo Stato, pp. 147-162). È interessante evidenziare, fra le altre cose, l’asimmetria informativa che in quest’epoca si creò, con notizie ottimistiche sull’innalzamento del reddito pro-capite — in specie per l’aumento del lavoro femminile — a cui non sarebbe corrisposto un effettivo beneficio per le famiglie (libertà e sovranità illusorie): è l’attuale consapevolezza che all’opulenza non corrisponde la felicità. L’uomo moderno si mise su un tapis roulant consumistico ed edonistico, con la necessità, dopo ogni acquisto, di una nuova tentazione più grande, altrimenti incapace di provare soddisfazione.
3. Infine, la terza e ultima Rivoluzione descritta da Mlčoch è detta della «tardo-modernità» e si caratterizzerebbe per l’ingerenza del soggetto-mercato nella famiglia, in primis con la valutazione da parte delle persone, mai calcolata prima, dei costi-benefici nel mettere al mondo i figli (diagnostica prenatale) o nel mantenere in vita i genitori (eutanasia). Si tratta della nostra epoca: aborto, rinvio delle gravidanze, procreazione assistita, utero in affitto da un lato, ed eutanasia dall’altro, che per Mlčoch sarebbero gli effetti di una palese violazione dei limiti etici da parte del mercato. I figli diventano prodotti con una conseguente concatenazione di mutamenti valoriali, il cui prezzo da pagare è quello della maggiore problematicità delle scelte di ciascuno. Senza contare la cultura fallimentare del vivere a credito, con il consumatore che si ritrova come un criceto nella ruota (cfr. capitolo 3, L’imperialismo dell’economia neoclassica, pp. 99-116).
Il ruolo delle istituzioni
Ma la politica non ha tentato di arrestare questo disfacimento della famiglia? Mlčoch, dopo aver esaminato l’aggressione storica ai nuclei familiari, enumera anche i tentativi compiuti dalle istituzioni per porvi rimedio, esaminando così le politiche sociali per la famiglia applicate dai diversi Paesi dell’Occidente e interrogandosi sui motivi del loro sostanziale fallimento (cfr. capitolo 7, Modelli di politiche familiari nel contesto europeo e americano, pp. 187-220). Esse sarebbero: l’approccio liberale del Regno Unito, il modello religioso neo-conservatore statunitense, il familismo conservatore tedesco, il modello mediterraneo della famiglia tradizionale — approfondito tra l’altro da un inserto integrativo di Francesco Belletti —, la «defamiliarizzazione» scandinava e, infine, il modello di sostegno della famiglia francese. Tralasciando qualche secondaria, ma non trascurabile differenza fra questi modelli — più natalità negli Stati Uniti con il sistema delle deduzioni fiscali, meno natalità nell’Unione Europea con l’erogazione dei sussidi —, l’autore conclude che l’intervento pubblico non sia servito a molto, e a volte si sia anche dimostrato controproducente. Dopo il mercato, la seconda fonte di assoggettamento della famiglia è proprio lo Stato, e che queste politiche sarebbero fallite perché basate su una cultura individualistica: in poche parole, quasi ovunque la nascita di un figlio sembra che conduca la famiglia in una fascia di reddito inferiore. Nel secolo XX, all’aumento dell’occupazione femminile è corrisposto un numero sempre minore di matrimoni e di figli, con la conseguenza di un accumulo preoccupante di debiti demografici.
La stessa cosa, fra l’altro, è successa nei Paesi dell’ex blocco sovietico, dove gli esiti sarebbero ancora più disastrosi (cfr. capitolo 6, L’eredità demografica e familiare del socialismo in Europa orientale e centrale, pp. 163-185). A titolo di esempio, a fine anni 1980 in Cecoslovacchia, patria dell’autore, si riscontravano circa centodiecimila aborti all’anno ogni centomila nascite, cioè un bambino concepito aveva meno del 50 per cento di probabilità di nascere. L’eredità demografica e familiare del socialismo reale nell’Europa orientale e centrale, la path dependency e il condizionamento della storia verificatosi Oltrecortina, sono risultati drammatici. L’ideologia socialista si pose contro il matrimonio dapprima in maniera dogmatica — contro l’istituzione borghese —, poi acquisendo una forma paternalista (kindergarten, comitati per l’aborto, e così via). Per questa ragione le conseguenze non avrebbero potuto essere migliori rispetto al mondo libero. Con meno tentazioni (shortage economy: economia della scarsità) ma decisamente più pressione da parte dello Stato, la famiglia avrebbe subito a Est la medesima sorte che a Ovest. Ciò perché, dice Mlčoch, sistemi politici così diversi — marxista e, semplifica l’autore, imperialista economico — si sarebbero costruiti sugli stessi fondamenti del pensiero occidentale, un’ideologia razionalistica ostile alla Cristianità.
Fuggire il razionalismo
Alla crisi oggigiorno ravvisabile in Europa e nel Nord America nell’invecchiamento demografico, l’autore dedica un intero capitolo, incentrato sui sistemi pensionistici (cfr. capitolo 8, Famiglia e politiche di protezione per la vecchiaia: la pensione come «sostituzione dei figli con il capitale», pp. 221-246). I figli, che per le antiche generazioni erano il bastone della vecchiaia, non sarebbero più percepiti dall’uomo come un investimento per il futuro, né verrebbero riconosciuti come produttori di ricchezza sia privata sia sociale, ma solo ritenuti consumatori di risorse private e pubbliche. Per avere un sistema pensionistico sano sarebbe infatti di buon senso investire sui figli: se l’uomo non lo fa è perché la sua storia moderna, intrisa di razionalismo, starebbe ora virando verso l’irrazionalità. Infatti, gli investimenti nei figli come garanti del domani sarebbero molto più ragionevoli di quelli nei fondi finanziari, soprattutto dopo le esperienze del crollo delle borse, ma questa parte di umanità è prigioniera della sua cultura che non sa cambiare. La crisi per Mlčoch è allora interna al pensiero occidentale, che ingabbierebbe tutti in un circolo vizioso da cui sarebbe difficilissimo sfuggire. «In altri termini — scrive —, anche l’economia più esatta e matematica può trasformarsi in una pericolosa ideologia» (p. 285). Perciò, riprendendo le tesi del cardinale céco Tomáš Špidlík (1919-2010) — secondo cui la razionalità illuministica avrebbe avuto il suo germe già nella Scolastica medievale — l’opera infine consiglia di volgere lo sguardo alla cultura cristiana orientale. Siamo cioè alle conclusioni, nell’ultimo capitolo (Meta-economia: interrogativi che precedono la ricerca sulla famiglia e che rimangono ancora aperti, pp. 247-283). Il concetto di homo oeconomicus, che in teoria sarebbe custode della razionalità attraverso preferenze ben meditate, ma in pratica avrebbe ridotto l’uomo a un essere basato sul puro calcolo, deriverebbe infatti dalla teologia e dalla filosofia cristiane occidentali, esistenti ben prima dell’emergere dell’economia scientifica, delle Rivoluzioni e della modernità (cfr. Conclusioni. Questioni normative, come salvare la famiglia e come cambiare il cuore dell’homo oeconomicus, pp. 285-292). L’unica soluzione per l’autore sarebbe dunque una fuga dal pensiero scientifico, ormai esasperatamente razionalista e malato. Infatti, «questo volume dimostra che la tardo-modernità è molto meno libera di quanto si pensi. […] La mia analisi ha dimostrato che la concezione occidentale dell’individuo è in prevalenza patologica e si presenta problematica soprattutto nei confronti della famiglia e delle relazioni familiari. Siamo di fronte a una pressante domanda sociale per trovare una soluzione alla crisi della famiglia. Eppure questa soluzione non verrà offerta dalla scienza» (pp. 286-287).
Gabriele Maspero