Da Roberto Colombo da Il Foglio del 10/02/2022
Una lettera, quella di Benedetto XVI in risposta alle accuse di aver “coperto” dei preti abusatori di minori, che è stata scritta da un uomo debole nel corpo e fragile nei sensi ma forte nell’animo e tenace nel pensiero. Un uomo di novantacinque anni che sente avvicinarsi il giorno in cui, attraversata «la porta oscura della morte» – così l’ha chiamata lui stesso – vedrà Dio “faccia a faccia”, con i suoi occhi, come dice Giobbe. Questa è la umile e rocciosa certezza che pervade tutta la lettera e la vita stessa di Joseph Ratzinger in questo momento. Di fronte alla propria morte nessuno può barare, perché da questo baratro ultimo, definitivo, ci salva solo la Verità della vita: Gesù Cristo. E a questa Verità, Benedetto ha affidato la sua difesa: il Signore “in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito)”.
Chi ha scritto le righe della lettera non è un freddo calcolatore della eredità spirituale e morale che consegna alla Chiesa e al mondo, una persona preoccupata di tutelare il suo buon nome di fronte ai posteri, un edificatore della immagine di santità legata al proprio episcopato e papato, ma un uomo che sa di avere la coscienza e le mani pulite da presentare al Giudice supremo e misericordioso su questa dolorosissima vicenda degli abusi sessuali nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga. Una eredità la si trasmette, non la si difende (caso mai, toccherà ad altri difenderla). Il buon nome è riconosciuto, non costruito. La santità si diffonde da sola, per osmosi, non per propaganda.
Benedetto XVI è testimone della libertà più grande che si possa sperimentare sulla terra: non avete timore del giudizio degli uomini (ecclesiastici e laici) e di quello della storia (presente e futura), ma solo di quello di Dio. Timete Dominum et nihil aliud. Passione per la verità e amore per la libertà genuina, propria e di tutti, hanno guidato, e continuano a farlo fino ad oggi, la vita del Papa emerito, anche nella burrasca di fatti orrendi e delle loro vittime di fronte alle quali egli dichiara senza reticenze: dinnanzi a voi sta “la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono”.
Sullo scoglio di questo coraggio, mite e fermo al medesimo tempo, vanno a naufragare tutte le strumentali letture del testo di Benedetto XVI, che vorrebbero accusarlo di ciò che egli non può ammettere, dividendo ciò che è inseparabile: i fatti documentati nella memoria difensiva raccolta dai collaboratori di Joseph Ratzinger con il coordinamento dell’arcivescovo Georg Gänswein, suo segretario personale, e l’“errore” non intenzionale, la “svista” ammesso da Benedetto XVI e riferito ad un singolo episodio quando egli era arcivescovo di Monaco e Frisinga, da una parte, e, dall’altra, l’espressione di “dolore” e “vergogna” e la richiesta di “perdono” alle vittime per il male commesso da sacerdoti della diocesi di cui era pastore. Come un padre che piange, è umiliato e domanda il perdono di coloro che hanno subito una gravissima ingiustizia ad opera di uno o più dei suoi figli senza che egli ne fosse portato a conoscenza, così Benedetto non esita a mettersi in ginocchio con loro e come loro, di fronte a Dio e alle vittime, con animo contrito ma con la libertà e nella verità della coscienza di non avere mentito né al Signore né agli uomini. La lettera dice solo “sì, sì” e “no, no”. “Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37).