La Chiesa ha sempre fatto suo l’insegnamento di Sant’Agostino secondo cui la «La pace dello Stato è l’ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini […]. La pace dell’universo è la tranquillità dell’ordine» (De Civitate Dei, 19,13), tranquillità spiegata da Benedetto XVI come «quella situazione che permette, in definitiva, di rispettare e realizzare appieno la verità dell’uomo» (Messaggio Nella verità, la pace, 1 gennaio 2006, Giornata Mondiale per la Pace).
Ma, cos’è l’ordine? L’ordine è la retta disposizione delle cose secondo il loro fine naturale e soprannaturale. La società è ordinata se tutte le istituzioni, le leggi, la cultura, i costumi e via dicendo, sono disposti secondo la legge naturale e orientati per la gloria di Dio, fine ultimo di qualsiasi società umana, spirituale o temporale. Quando ciò non avviene, quella società non può avere vera pace. Una società che lede il diritto a vivere dei più indifesi (nascituri e malati), che non riconosce la natura dell’uomo e della donna come un dono primigenio, che non fonda la sua dimensione sulla difesa del valore della famiglia, che non protegge la crescita spirituale, morale e culturale dei suoi giovani, non è una società ordinata. Lo hanno ripetuto anche politici, sociologi, economisti: la crisi della nostra società è prima di tutto una crisi morale.
La possibilità di creare la pace parte dall’intimo di ognuno, nella quotidiana lotta contro il peccato che, anche quando è individuale, ha sempre un risvolto sociale. Come conseguenza del peccato originale, esiste nell’uomo un costante attrito tra gli appetiti sensibili e la volontà guidata dalla ragione: «Vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia ragione» (Rom. 7, 23). Ma ci sono momenti e circostanze storiche in cui la gravità della situazione diventa talmente pesante da necessitare un intervento “straordinario”, l’uso della forza militare.
L’uso delle armi e della forza deve essere sottoposto ad attento esame: «La lotta contro le ingiustizie non ha senso, se non è condotta con l’intento di instaurare un nuovo ordine sociale e politico in conformità con le esigenze della giustizia. […] Questi princìpi devono essere rispettati in modo speciale nel caso estremo del ricorso alla lotta armata, che il magistero ha indicato quale ultimo rimedio per porre fine a una “tirannia evidente e prolungata, che attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso al bene comune di un Paese”» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Libertatis conscientia, 78-79).
Allo stesso tempo coloro che sono impegnati nel servizio militare, svolgono una apprezzabile opera a vantaggio di tutta la comunità e di questo va dato loro atto con un sincero ringraziamento verso i disagi e i pericoli cui si sottopongono.
Il Terzo Canone del Concilio di Arles, tenutosi nell’agosto del 313, sancisce la prima condanna del pacifismo, stabilendo che «quelli che gettano le armi vengano scomunicati» e san Giovanni Paolo II: «Giusta pace, certamente. Noi non siamo pacifisti, non vogliamo la pace ad ogni costo. Una pace giusta. Pace e giustizia. La pace è sempre opera della giustizia: Opus iustitiae pax.» (L’Osservatore Romano, 18-19 febbraio 1991).
«Le esigenze della legittima difesa giustificano l’esistenza, negli Stati, delle forze armate, la cui azione deve essere posta al servizio della pace: coloro i quali presidiano con tale spirito la sicurezza e la libertà di un Paese danno un autentico contributo alla pace. Ogni persona che presta servizio nelle forze armate è concretamente chiamata a difendere il bene, la verità e la giustizia nel mondo; non pochi sono coloro che in tale contesto hanno sacrificato la propria vita per questi valori e per difendere vite innocenti». (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 502 che riprende la Gaudium et spes, 79 e CCC 2310).
Silvia Scaranari