Le crisi finanziarie ed economiche sempre più ravvicinate dell’ultimo quarto di secolo hanno messo in evidenza i limiti del modello di sviluppo economico e sociale dei Paesi sviluppati, afflitti da inverno demografico, eccesso di debito e “finanziarizzazione dell’economia”. La “soluzione” proposta, tuttavia, sembra andare nella direzione opposta a quella desiderabile, col rischio di aggravare ulteriormente i mali che si pretenderebbe curare. L’uso corretto delle parole ci può aiutare a inquadrare meglio la situazione attuale e le sue prospettive di evoluzione.
di Maurizio Milano
Il “capitalismo” è o “selvaggio” oppure “turbo”, il “liberismo” è sempre “neo” e il “mercato”, va da sé, accresce inevitabilmente le “ineguaglianze sociali”, rendendo “i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi”. Questa è la narrazione prevalente che abbiamo di fronte facendo una semplice ricerca di articoli e saggi su tematiche economiche sul motore di ricerca Google. L’impressione è che alcuni termini abbiano assunto una semantizzazione ambigua, un concentrato di tutta la negatività possibile, tanto che vengono poi utilizzati da economisti che hanno posizioni anche molto differenti tra loro. Per fare un esempio, il modello economico attuale è criticato dal World Economic Forum (WEF) di Davos e da Noam Chomsky come «neo-liberista», ma anche alcuni critici del «Grande Reset» di Davos come Ilaria Bifarini utilizzano la stessa terminologia, pur divergendo sulle “terapie” proposte.
Storicamente, nell’alveo del cosiddetto «neo-liberismo» rientrano varie scuole economiche – da quella «austriaca» di Ludwig von Mises (1881-1973) e Friedrich von Hayek (1899-1992) all’«ordoliberalismo» dell’«economia sociale di mercato» propugnato dalla «scuola economica di Friburgo» al «monetarismo» di Milton Friedman (1912-2006) –, le quali, pur nella grande varietà degli approcci proposti, sono accomunate dalla difesa del libero mercato e dell’imprenditorialità privata dall’invadenza del potere politico, riconoscendo la necessità di un quadro giuridico di riferimento e la possibilità, più o meno estesa, di un intervento pubblico, comunque sempre limitato e secondo logiche sussidiarie.
Il sistema economico dominante nei Paesi sviluppati, dal Giappone agli Usa, dall’Unione Europea alla Cina, è invece caratterizzato, mutatis mutandis, da una presenza molto forte dello Stato nella vita economica e sociale, da un livello di pressione fiscale e contributiva importante, da un’elevata collusione dei grandi gruppi industriali e finanziari col potere politico (il cosiddetto crony capitalism o capitalismo clientelare) e da un monopolio statale sul denaro, la cui quantità viene manipolata ad libitum dalle rispettive Banche Centrali che intervengono in modo sempre più attivo per orientare i sistemi finanziari, e quindi economici, dei propri Paesi. Le prospettive per l’«era post-pandemica» dell’agenda del «Grande Reset» del WEF è quella di andare verso un ulteriore accentramento della governance, con una “cooperazione” delle classi dirigenti politiche, economiche e finanziarie mondiali per costruire una “nuova normalità”, caratterizzata da maggior sicurezza garantita dall’alto, minor libertà di scelta nei consumi e negli investimenti di famiglie e piccole e medie imprese, con l’appiattimento dei corpi intermedi a favore di una leadership dirigista e accentratrice. L’orizzonte di riferimento è quello indicato nell’agenda ONU 2030 per il cosiddetto “sviluppo sostenibile”, che si vuole rilanciare post-pandemia: «B3W», ovvero «Build back a better World», secondo il motto del Presidente statunitense Joe Biden e condiviso dai membri del G7. La missione delle classi dirigenti tecnocratiche mondiali è quindi quella di approfittare della «grande opportunità» offerta dal CoViD-19 per «ricostruire in modo migliore», nella prospettiva di una sorta di «Stato del benessere» planetario, dove i bisogni del “cittadino” vengono soddisfatti e garantiti, «dalla culla alla bara», purché ovviamente questi si comporti da “buon” cittadino, rispettoso del nuovo «patto sociale» e dei nuovi «diritti dell’uomo» onusiani. La famiglia, i corpi intermedi e le prospettive “spirituali” non trovano, ovviamente, alcuna “cittadinanza” in questa prospettiva atomistica e materialistica, centralistica e dirigistica.
Se questo sembra essere il quadro, un’analisi obiettiva dovrebbe allora parlare di una situazione di partenza caratterizzata da scarsa libertà e autonomia e forte statalismo e clientelismo che sta evolvendo verso una prospettiva in cui si propone un ulteriore accentramento della governance a favore dello Stato, della comunità internazionale con un rinnovato multilateralismo, con la collaborazione dei grandi gruppi industriali e finanziari. Un’impostazione che probabilmente non sarebbe dispiaciuta al filosofo idealista tedesco George W.F. Hegel (1770-1831), che nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto vagheggiava uno Stato inteso come un «Tutto etico […], il cammino di Dio nel mondo […], la potenza della Ragione realizzantesi come volontà». Una visione distopica dove tra il cittadino e il potere politico centrale non c’è più nulla.
A fronte di un quadro di tale tipo – la cui concreta realizzazione non è, fortunatamente, per nulla scontata – appare quindi del tutto inadeguata la terminologia sopra-evocata: se per capitalismo e liberismo, o addirittura per “capitalismo selvaggio”, “turbo-capitalismo” e “neo-liberismo” si volesse intendere una situazione caratterizzata da un mercato senza regole e senza freni, dove i privati possono fare ciò che vogliono e il potere pubblico è fuori dalla stanza dei bottoni, beh, allora non è questa la situazione attuale e ancora meno quella verso cui stiamo andando. La stessa Wall Street, che nell’immaginario collettivo è il simbolo del capitalismo più sfrenato, è in realtà legata a filo doppio alle politiche monetarie della Federal Reserve, la Banca Centrale statunitense, solo formalmente indipendente dal governo federale. Le politiche monetarie ultra-espansive successive alla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009 hanno aumentato la concentrazione di ricchezza, a favore dei più ricchi e a danno dei piccoli risparmiatori, ma il “mercato” non c’entra nulla, si tratta di decisioni politiche, condivise certamente dai grandi gruppi economici e finanziari che ne sono risultati i principali beneficiari.
Perché allora utilizzare termini evidentemente inadeguati? L’impressione è che certe parole siano impiegate dalle classi dirigenti in modo strumentale per far passare ulteriori restrizioni alla libertà e all’auto-determinazione delle famiglie e dei corpi intermedi. L’operazione è sicuramente maliziosa perché si denuncia un male che esiste per davvero, un modello di sviluppo economico e sociale di cui sono evidenti a tutti i limiti, resi ancora più acuti dalla pandemia e dal modo in cui è stata gestita dai pubblici poteri. Il problema però è la diagnosi: non si evidenziano certo i punti critici come lo statalismo, l’eccesso di pressione fiscale, il clientelismo, la “finanziarizzazione dell’economia” a danno dei piccoli risparmiatori e a beneficio dei grandi debitori, sia privati sia Stati sovrani, l’involuzione della società ben riflessa dal suicidio demografico in atto e dal crollo delle famiglie e delle virtù, pre-condizioni per una vita economica e sociale sana e prospera. Tutt’altro: l’uso furbesco delle parole aiuta invece a far passare una “diagnosi” ideologica, funzionale a una falsa “terapia”, che potrebbe accentuare ulteriormente i mali sopra-indicati, se non necessariamente sul piano del benessere materiale sicuramente su quello degli spazi di libertà e autonomia della persona e della famiglia.
Gli stessi termini vengono poi ripresi dalla generalità dei commentatori, a cascata, con un riflesso pavloviano, in cui si “accorcia” il pensiero, si banalizza la fase di descrizione, di ragionamento e di critica. Prova ne sia che anche chi ha intuito il pericolo liberticida della prospettiva verso cui si sta andando, in accelerazione post-Covid, cade poi nel tranello di etichettare come “neo-liberista” il modello attuale e di accettare quindi implicitamente e inconsciamente terapie dirigistiche, e quindi ulteriore statalismo; ci si convince che le ineguaglianze e la povertà siano conseguenze inevitabili della libertà e allora si accetta una guida economica illuminata da parte delle classi dirigenti economiche, finanziarie e politiche mondiali; ci si impaurisce per la fragilità del tessuto sociale e allora si rinuncia anche agli ultimi spazi di libertà – col rischio di un’ulteriore atrofizzazione del corpo sociale – in cambio della promessa di maggiore sicurezza garantita dall’alto, anche nella forma del “reddito di cittadinanza”.
Ė opportuno, anzi è doveroso, criticare il modello attuale, e ancor di più l’evoluzione verso cui si vuole andare, ma per i giusti motivi e utilizzando una terminologia più adeguata: siamo contrari al “socialismo finanziario” delle Banche centrali, allo statalismo invadente, al capitalismo clientelare, all’oppressione fiscale, all’atomizzazione della società, alla compressione della famiglia, alle restrizioni alla proprietà privata e all’iniziativa economica dei piccoli e medi imprenditori. Non ci piace né il “liberalismo relativista” né il “socialismo totalitario”, e neppure quell’ibridazione verso cui sembra stiamo andando, un mix di relativismo morale che diviene «dittatura» (come denunciato profeticamente dal Card. Joseph Ratzinger nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice nel 2005) e si associa alla compressione della libertà, anche economica, nel peggiore dei mondi possibili, e che potremmo forse definire con l’espressione solo apparentemente contradditoria “socialismo liberale” o “liberalismo socialista”.
Si impone allora un’adeguata explicatio terminorum, come si usava nelle discussioni tra scolastici, non solo per amore alle parole in sé ma per evitare che il loro uso equivoco e ambiguo infici la lucidità dell’analisi, e quindi anche la diagnosi e l’eventuale terapia. Non si tratta, in ultima analisi, di difendere delle parole, come ad esempio il termine “liberismo” e neppure il termine “capitalismo”, che peraltro sono state coniate da chi criticava l’economia libera e si prestano quindi a letture ambigue; si tratta invece di difendere delle “cose”, in specie la libertà, anche economica, contro ogni dirigismo, sia esso dello Stato, della comunità internazionale o delle classi dirigenti economiche e finanziarie. La prospettiva è l’«economia libera» evocata da San Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Centesimus annus (nr. 42 e 48), rispettosa di una sana antropologia, che vede al centro non il “cittadino” ma la persona e la famiglia e dove lo Stato, nel suo ruolo di promotore del bene comune, deve definire il quadro giuridico di riferimento per garantire una crescita libera e ordinata, nella prospettiva di una crescita sussidiaria a vantaggio di tutti e di ciascuno.
Il linguaggio non è solo un mezzo di comunicazione ma anche uno strumento di pensiero, e richiede un uso corretto dei termini, per evitare sofismi e paralogismi. Come diceva il filosofo cinese Confucio (551 a.C.-479 a.C.): «se i nomi non sono corretti, se non corrispondono alla realtà, il linguaggio è privo di oggetto. Se il linguaggio è privo di oggetto agire diventa impossibile e quindi tutte le faccende umane vanno a rotoli e gestirle diventa impossibile e senza senso […]. Quando le parole perdono il loro significato, le persone perdono la propria libertà».
Sabato, 03 luglio 2021