Marco Respinti, Cristianità n. 245 (1995)
Nel maggio del 1945 Maurice Harold MacMillan — poi primo ministro dal 1957 al 1963 — concordò con i sovietici e il 5° Corpo d’Armata inglese la riconsegna a Stalin di circa quarantamila prigionieri cosacchi — combattenti e civili —, che si erano battuti contro l’Armata Rossa. La stessa sorte toccò anche agli anticomunisti slavi meridionali riparati in Austria: fra il 17 e il 31 maggio da trenta a trentacinquemila persone vennero consegnate agli uomini di Tito.
Questi gravissimi crimini di guerra sono stati accuratamente ricostruiti dallo storico anglo-russo conte Nicolay Dmitrevic Tolstoy nelle opere Victims of Yalta, del 1977, e The Minister and the Massacres, del 1986.
In seguito alle sue affermazioni, tutte documentate, l’autore ha dovuto subire numerosi procedimenti giudiziari.
Maggio-giugno 1945: il rimpatrio forzato di cosacchi e altri crimini di guerra «eccellenti»
«Il principale centro di resistenza alla rivoluzione francese fu la Vandea — scrive lo storico statunitense William Henry Chamberlin, aprendo il capitolo XXVII della Storia della Rivoluzione russa, intitolato Denikin e la Vandea cosacca —, dove i contadini bretoni nutrivano sentimenti di lealismo verso il re, la Chiesa e la nobiltà, e combatterono ostinatamente contro le truppe rivoluzionarie. La Vandea della rivoluzione russa fu il ricco paese cosacco del sud-est, dove l’opposizione al regime sovietico fu più ostinata e generale. Il fatto che l’Esercito volontario, coi suoi generali sperimentati e un corpo di ufficiali tra i quali c’erano molti veterani, scegliesse la Vandea cosacca come suo campo di operazioni, fece delle regioni del sud-est il centro più formidabile dei molti sforzi che vennero tentati per rovesciare il regime sovietico con le ami» (1).
I cosacchi fra anticomunismo e nazionalsocialismo
Il popolo cosacco, etnia fiera delle proprie tradizioni e della propria indipendenza, è stato baluardo, dopo la conversione al cristianesimo, dei confini della Santa Russia contro le invasioni da oriente delle orde pagane, di cui peraltro condivideva l’origine tartaro-mongolica, nonché conquistatore di nuove terre per lo scettro imperiale degli zar, quantunque sempre indomito oppositore, anche in armi, delle involuzioni assolutistiche e accentratrici della monarchia russa moderna che ne minacciavano l’identità, l’indipendenza e la sopravvivenza. La sua storia recente può essere raccontata a partire dal calvario che esso, come tanti altri popoli vicini e lontani, è stato costretto a percorrere, dopo il golpe bolscevico dell’ottobre del 1917 che portò il socialcomunismo al potere in Russia, presto sanguinariamente trasformata in Unione Sovietica.
Come poco spesso ricordato, dopo che i rivoluzionari di Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, presero il potere con un putsch, i territori dell’ex impero zarista vennero sconvolti da anni di «guerra civile» che, fra il 1918 e il 1921, oppose gli anticomunisti, i Bianchi, ai socialcomunisti, i Rossi, organizzati militarmente nell’Armata Rossa guidata da Lev Davidovic Trockij. Schierato con i Bianchi, il popolo cosacco dette prova del proprio valore militare e della propria fama guerriera conducendo una lotta senza quartiere contro l’Armata Rossa (2).
Nel 1918, quando le truppe tedesche avanzarono in territorio russo combattendo contro i bolscevichi, il famoso ataman cosacco Petr Nikolaevic Krasnov — a differenza di quanto deciso da altri capi bianchi — decise di sfruttare l’occasione storica e di combattere a fianco degli uomini del Kaiser, pur senza mai spingere i propri volontari a sposare le ragioni politiche dell’alleato militare: «L’Esercito volontario è puro e innocente — affermò il generale —. Ma io, atamàn del Don, prendo con le mie sudice mani le bombe e le cartucce tedesche, le lavo nelle acque del placido Don e le consegno pulite all’Esercito volontario» (3).
Nel 1921, però, la «guerra civile» — dall’esito lungamente incerto — terminò con il trionfo dei Rossi. Come altri popoli dell’Unione Sovietica, i cosacchi subirono lunghi anni di angherie e di brutalità, fino a quando, rotto il patto che alleava i due totalitarismi violenti dell’epoca — il socialismo nazionalistico tedesco e quello internazionalista sovietico —, il Terzo Reich scatenò — il 22 giugno 1941 — l’operazione Barbarossa contro Mosca. Adottando una risoluzione simile a quella presa negli anni 1910 da Petr N. Krasnov, i cosacchi si ribellarono al giogo socialcomunista combattendo a fianco dei tedeschi; analogamente fecero la ROA, la Russkaja Oswoboditelnaja Armija, l’Armata di Liberazione Russa del generale ex comunista Andrej Andreevic Vlasov (4), nonché georgiani, armeni, azerbaigiani, osseti, e altri.
In La «questione russa» alla fine del secolo XX, Aleksandr Isaevic Solzenicyn afferma essere «[…] indicativo che finanche negli ultimi mesi (inverno 1944-45), quando per tutti era ormai evidente che Hitler aveva perduto la guerra, ebbene proprio in quei mesi molte decine di migliaia di russi che si trovavano all’estero presentassero domanda per arruolarsi nell’Esercito russo di liberazione (Roa)! — ecco qual era la voce del popolo russo. E sebbene non soltanto gli ideologi bolscevichi (insieme con i timidi intellettualoidi sovietici), ma anche l’occidente (incapace di immaginare che i russi potessero avere un loro proprio obiettivo nella guerra di liberazione) abbiano ricoperto di sputi la storia dell’Esercito russo di liberazione, quest’ultimo entrerà comunque nella storia del Paese […], e ne rappresenterà una pagina significativa e coraggiosa» (5).
Nella lotta anticomunista, dunque, tornava a rivivere l’epopea contro-rivoluzionaria dei cosacchi: circa seimila servirono fra le truppe austro-russe comandate dal generale principe Aleksàndr Vasilevic Suvorov che, nel 1799, combatterono gli invasori rivoluzionari francesi dell’Italia Settentrionale; e, fra i soldati imperiali russi, essi contribuirono, nel 1808, alla sconfitta del medesimo nemico, questa volta invasore in Russia, agli ordini dell’Imperatore dei francesi Napoleone Bonaparte.
Lo storico, il primo ministro e i massacri
Fra il 1944 e il 1945, però, almeno la metà dei sei milioni di sovietici presenti in Occidente venne riconsegnata a Mosca, in ottemperanza agli accordi siglati a Yalta fra Unione Sovietica, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America.
Sul tema, alcune delle opere più importanti sono state pubblicate dal conte Nikolai Dmitrevic Tolstoy. Nato in Inghilterra nel 1935 e figlio dell’emigrato russo Dmitrij, capo dei casati Tolstoj e Miloslavskj, il conte Nikolai D. Tolstoy — la grafia dei nomi è quella dell’uso anglosassone — discende direttamente dal famoso scrittore Lev Tolstoj. Cristiano ortodosso, si è laureato in storia moderna e in dottrine politiche presso il prestigioso Trinity College di Dublino, in Irlanda. Sposato e padre di quattro figli, è autore del celebre studio Victims of Yalta (6) e di The Minister and the Massacres (7). Mai tradotte, le opere dello storico — e le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto — sono state riconsiderate dalla nostra stampa in relazione al 50° anniversario dei rimpatri, occasione anche di una sua breve tournée italiana di conferenze (8).
Le «vittime di Yalta» e di Sir Robert Anthony Eden — ministro degli Esteri britannico dal 1935 al 1938 e durante la seconda guerra mondiale, poi primo ministro dal 1955 al 195l, «l’architetto del rimpatrio forzato del 1944», secondo il barone lord Nicholas W. Bethell (9) — furono in gran parte prigionieri di guerra — gli anticomunisti in lotta contro Mosca —, lavoranti schiavizzati dai tedeschi e semplici profughi che, per sfuggire al socialcomunismo, avevano seguito il ritiro della Wehrmacht dopo la disfatta della battaglia di Stalingrado, nel febbraio del 1943.
Tutti furono adoperati quale merce di scambio — baratto dal quale, peraltro, gli Alleati ricavarono apparentemente ben poco — e incontrarono la tortura, il GULag e la morte. Ma in questo triste commercio di esseri umani eccelle per assurdità il trattamento riservato, fra maggio e giugno del 1945, ai russi bianchi arruolati fra i cosacchi, nonché ad altri anticomunisti croati, sloveni, serbi e montenegrini consegnati rispettivamente a Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin, e a Josip Broz, detto Tito, con un’azione non sancita neppure da un ingiusto accordo internazionale (10).
Maggiormente sconcerta il fatto che questa doppia operazione segreta, contraria alle direttive ufficiali dei governi alleati, venne attuata illegittimamente e ingiustificatamente da un pugno di uomini. Lunghe e accurate ricerche su questo vero e proprio «complotto» (11) hanno consentito al conte Nikolai D. Tolstoy d’individuare l’artefice e il responsabile della colossale tragedia: «Ora sentivo di sapere — ha scritto lo studioso — chi fosse il mio uomo! […].
«Pazientemente costruii un caso circostanziale che provò, almeno per mia soddisfazione, che Harold Macmillan […] aveva lui stesso architettato l’intera vicenda» (12). Oltre alle responsabilità dell’allora proconsole britannico per il Mediterraneo Maurice Harold Macmillan — il «potente» che impartì gli ordini —, lo storico anglo-russo ha evidenziato quelle del generale Sir Brian Robertson, ufficiale amministrativo in capo presso l’AFHQ, l’Allied Force Headquarters, il Supremo Comando alleato fuori Napoli; quelle del tenente generale Charles Keightley, comandante del 5° Corpo d’Armata britannico, il cui quartier generale era situato nella cittadina austriaca di Klagenfurt; e quelle del comandante di brigata Toby Low, capo di stato maggiore del medesimo Corpo. Maurice Harold Macmillan e Toby Low, peraltro, ebbero in seguito una fulgida carriera politica: l’uno venne creato Lord Stockton e divenne primo ministro, dal 1957 al 1963; l’altro — insignito a sua volta del titolo di Lord Aldington dallo stesso Maurice Harold Macmillan — divenne presidente del Partito Conservatore, gruppo politico al quale entrambi sono appartenuti.
La sorte dei prigionieri cosacchi e slavi meridionali venne segnata il 13 maggio 1945, allorché Maurice Harold Macmillan volò daNapoli a Klagenfurt per concordare con i sovietici e i vertici del 5° Corpo d’Armata britannico la consegna di circa 40.000 prigionieri — combattenti e civili — cosacchi. La stessa sorte toccò anche agli anticomunisti slavi meridionali, riparati in Austria a fronte del dilagare dei partigiani comunisti jugoslavi: fra il 17 e il 31 maggio, circa 30-35 mila persone fra sloveni, croati, serbi e montenegrini vennero consegnati agli uomini di Josip B. Tito. Il destino di costoro, inghiottiti in fosse comuni sparse un poco dappertutto sul territorio della Jugoslavia socialcomunista, fu — come sottolinea lo studioso — se possibile ancora peggiore di quello dei cosacchi. Uno dei luoghi del loro martirio è nelle foreste di Kocevje, in Slovenia, dove i rimpatriati, spogliati di abiti e di oggetti preziosi, vennero uccisi a colpi di armi automatiche e gettati in vaste grotte naturali, poi fatte esplodere. Nel 1990, lo storico anglo-russo — recatosi per la prima volta di persona sul luogo dell’eccidio — ha stimato in circa 10.000 fra croati e «domobranci» — gli uomini dell’esercito volontario anticomunista sloveno, Slovensko Domobranstvo, radunato nel settembre 1943 dal generale Leon Rupnik, già sindaco di Lubiana e che aveva combattuto nel- l’esercito austro-ungarico — il numero delle vittime di Kocevje (13).
In tutto, l’operazione di Maurice Harold Macmillan — secondo lo studioso anglo-russo — ha comportato circa 70-75.000 rimpatri. Ma la consegna dei non sovietici fra i cosacchi e quella degli slavi meridionali costituiscono una «tragedia nella tragedia»,configurante un crimine di guerra «dimenticato» — o celato — di una gravità eccezionale. Di fronte a esso, il conte, ripercorrendo lo svolgimento delle proprie ricerche e considerando le gravi conclusioni a cui esse giungono, afferma: «In conclusione, mi era apparso che l’intera questione configurasse un grave crimine di guerra: la sua portata e la quantità di sofferenze che causò, lo rende paragonabile a un crimine di guerra nazista. Per certi versi fu anche peggiore, se mai è possibile “stilare una graduatoria” di crimini di guerra: infatti, i tedeschi che si resero concretamente responsabili di crimini di guerra avrebbero pagato la loro eventuale disubbidienza agli ordini superiori con la fucilazione o con l’invio sul fronte orientale, anche se poi essi utilizzarono questa motivazione come una scusa. I tedeschi vivevano nell’atmosfera di uno Stato totalitario dove queste azioni malvagie erano normali. Il crimine di guerra britannico, invece, venne perpetrato a conflitto terminato e in tempo di pace da persone che si presumeva avessero combattuto per la democrazia e che sapevano quanto tale azione fosse sbagliata, oltre a tutto non comportando alcun vantaggio concreto. Per di più, gli esecutori non ubbidirono a degli ordini, ma li modificarono. È persino difficile scorgerne la motivazione eccetto — credo — la sola politica di appeasement, di distensione: prima della guerra, il governo britannico era indaffarato ad ammansire Adolf Hitler e ora cercavano di ammorbidire Josif V.D. Stalin. A mio avviso l’appeasement non funziona mai, né funzionò in quell’occasione: il despota sovietico si fece semplicemente più avido. Insomma, si trattò di un’operazione interamente segreta e straordinariamente malvagia» (14).
Per quanto riguarda le motivazioni che avrebbero spinto Maurice Harold Macmillan e i suoi principali collaboratori, Charles Keightley e Toby Low, a disubbidire agli ordini superiori e a causare la morte di migliaia di innocenti, assolutamente non «collaborazionisti», il conte precisa: «Toby Low, un uomo privo di scrupoli, pronto a eseguire quanto i suoi padroni richiedono al fine di ottenere avanzamenti, volendo divenire parlamentare, seppe come sbrigare quanto richiesto da Maurice Harold Macmillan, esponente significativo del Partito Conservatore. Charles Keightley era un militare come tanti, ma anch’egli ambizioso di promozioni.
Due uomini molto simili…
«Per quanto riguarda Maurice Harold Macmillan, la questione è diversa. Perché lo fece? Non lo so… Non ha mai voluto rendere ragione delle sue azioni e ha sempre rifiutato d’incontrarmi» ( 15).
Continua lo studioso: «Si possono, dunque, fare solo delle supposizioni: almeno due. La prima è semplice: l’ex primo ministro — uomo in generale molto freddo e spietato — ritenne che, appagando i sovietici, ogni futuro rapporto con loro sarebbe risultato più semplice. Forse non si trattò che di questo. D’altro canto — è la seconda supposizione —, a volte mi domando se non si trattò di qualche cosa
di peggiore; per esempio, se i sovietici non avessero qualche presa su di lui e, per qualche ragione, non lo ricattassero. Non ho alcuna prova di tutto questo, ma l’intero complotto, colto nel suo insieme, appare straordinario e inesplicabile» (16). Dunque, «le ragioni di Lord Stockton potrebbero, forse, celarsi ancora in qualche archivio ex sovietico non ancora ispezionato…» (17).
La farsa dei processi e la «censura privata»
1. Le pesanti accuse rivolte a personalità di rilievo del mondo politico britannico contenute nelle pubblicazioni del conte Nikolai D. Tolstoy non hanno curiosamente causato in modo diretto alcun guaio allo storico. Se Charles Keightley era scomparso nel 1974, Maurice Harold Macmillan Lord Stockton — scomparso nel 1987, pochi mesi dopo l’uscita di The Minister and the Massacres — si limitò a negare laconicamente allo storico anglo-russo qualsiasi collaborazione per la verifica dei fatti. Solo Toby Low Lord Aldington — tuttora vivente — reagì in modo diverso.
Denunciatolo per diffamazione nel 1987, Lord Aldington è riuscito a trascinare lo studioso in un processo divenuto piuttosto famoso in Gran Bretagna e celebrato fra il novembre e il dicembre del 1989. La ragione di quello che è stato considerato il dibattimento più lungo e più strano della giurisprudenza britannica fu la distribuzione, da parte di Nigel Watts — un privato cittadino co-imputato al processo del 1989 —, di un volantino intitolato War Crimes and the Wardenship of Winchester College, contenente accuse assai precise contro Lord Aldington, alle quali, comunque, né l’interessato, né altri hanno mai risposto esaurientemente. Del volantino, però, era stato autore proprio lo storico anglo-russo, intenzionato a correggere i molti errori di valutazione storica compiuti da Nigel Watts in una prima stesura del breve testo, tratto approssimativamente da The Minister and the Massacres.
L’intenzione di Nigel Watts, peraltro, era quella di colpire, per una questione d’una assicurazione privata, la Sun Alliance Insurance Group attraverso Lord Aldington — presidente della compagnia fino al 1985 —, trovando ingiusto che l’uomo politico, responsabile di crimini di guerra, potesse ricoprire la carica onoraria di rettore del Winchester College, una famosa public school — istituzione privata dell’omonima cittadina — dalla quale provengono molti dei leader politici e amministrativi britannici.
Nonostante le decine di prove e di testimonianze fornite dalla difesa, i due imputati al processo vennero condannati dalla High Court presieduta dal giudice Michael Davies, un uomo tutt’altro che al di sopra delle parti e in più occasioni apertamente favorevole a Lord Aldington, magari sulla base — quando le situazioni si facevano ingarbugliate e le questioni spinose — di un giudizio aprioristico di «rispettabilità», sempre invece negato al conte Nikolai D. Tolstoy sprezzantemente definito «sedicente storico». Il verdetto della corte ha colpito soprattutto quest’ultimo, condannandolo a versare la cifra astronomica di un milione e mezzo di sterline — la pena pecuniaria più elevata della storia giuridica britannica — e vietandogli di continuare a occuparsi della storia dei rimpatri forzati.
Deciso a ricorrere contro la sentenza, lo storico dovette subire un’altra ingiustizia a opera del giudice della Corte d’Appello Sir Stephen Brown, il quale, fra maggio e luglio 1990, vincolò l’ammissibilità del ricorso al versamento, entro quattordici giorni, di circa 125.000 sterline come anticipo per i costi legali che Lord Aldington avrebbe dovuto sostenere. Non riuscendo a raccogliere tale cifra entro la scadenza, lo storico non potè dare seguito all’iter giudiziario. La vicenda s’infittì ancora quando, nel 1990, fu scoperto che alcuni documenti pubblici conservati negli archivi nazionali britannici erano stati «prestati» a un gruppo di ricercatori «desiderosi di indagare» su quei fatti lontani. Il prestito era avvenuto durante lo svolgimento del processo e, al termine, aveva comportato lo smarrimento dei documenti stessi — così, almeno, affermò il ministro degli esteri Sir Douglas Hurd, dando la notizia ufficiale della perdita, nell’agosto 1991 —, i documenti vennero ritrovati solo alla fine del 1991, grazie anche all’interessamento della compagnia televisiva Thames Television — intenzionata a girare un programma speciale sulla vicenda — e del parlamentare del Partito Conservatore Sir Bernard Braine, amico dello storico anglo-russo.
Fra questi incartamenti, fra l’altro, fu trovata prova della falsità di certe dichiarazioni di Lord Aldington sulla data esatta della propria partenza dall’Austria nel 1945, documentando — contrariamente a quanto da lui affermato pubblicamente — che l’ex ufficiale si trovava in loco nel momento dei famigerati rimpatri. Vi era anche materiale inerente la sottrazione dei cosacchi alla tutela nordamericana — operazione Coldstream — da parte dello stesso Toby Low. Risultò evidente, peraltro, che sin dal 1987 certi collaboratori di Lord Aldington avevano potuto decidere indisturbatamente quale documentazione potesse continuare a essere pubblicamente conservata negli archivi nazionali e quale dovesse essere rimossa.
In base a questi ritrovamenti, i legali del conte Nikolai D. Tolstoy consigliarono al proprio assistito di denunciare l’influente uomo politico britannico per frode. La nuova udienza si svolse in segreto, per tre giorni, nel dicembre del 1994. Quando venne presentata la segnalazione militare ufficiale della vera data della partenza di Toby Low dall’Austria, il giudice Sir Andrew Collins interruppe il dibattimento, affermando perentoriamente che quel documento doveva per forza essere sbagliato e privo di valore, motivando l’affermazione con un sorriso all’indirizzo dell’imputato: sostenne che così doveva essere in quanto Lord Aldington così affermava…
Deciso a ricorrere in appello, l’avvocato difensore dello storico fece richiesta per ottenere una copia della registrazione — garantitagli — dell’udienza, scoprendo però che il giudice aveva dato ordine immediato di distruggere i nastri: dato che l’intera udienza fu segreta, non ne esistono, dunque, né tracce, né atti.
Negli anni successivi alla pubblicazione di The Minister and the Mascares, il conte ha però potuto consultare gli archivi moscoviti del KGB, rinvenendo conferme — ulteriori e di fonte diversa da quella da lui fino a quel momento consultata —, della responsabilità diretta di Maurice Harold Macmillan e dei vertici del 5° Corpo d’Armata britannico per il rimpatrio dei prigionieri cosacchi e slavi meridionali, deciso con i socialcomunisti sovietici e jugoslavi. Per questo motivo lo storico decise di ricorrere alla Commissione e alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, presentando denuncia nel 1992: per far valere le proprie ragioni, impugnò anzitutto il diniego di giustizia di cui venne fatto oggetto in merito alla questione del ricorso in appello contro la sentenza del primo processo, poi la conculcazione del diritto alla libertà d’espressione comminatogli con la sentenza del 1989.
Dopo un lungo iter, l’udienza finale nella cittadina francese si è svolta il 23 gennaio 1995 e il verdetto, ufficialmente comunicato il 13 luglio seguente, ha riconosciuto che l’entità della condanna pecuniaria è eccessiva e viola la libertà d’espressione dello studioso (18). Questa sentenza, comunque, rappresenta, per lo storico, soprattutto una vittoria morale; difficilmente, infatti, essa avrà conseguenze giuridiche dirette e concrete in Inghilterra.
2. Alla farsesca vicenda giudiziaria si è però, nel corso degli anni, aggiunto dell’altro.
Nel 1988, gli avvocati di Lord Aldington, dello studio Allen & Overy, decisero di procedere legalmente anche contro il volume The Minister and the Massacres e contro l’editore londinese Century Hutchinson, il quale decise di optare per il compromesso: nel 1989 versò le 30.000 sterline, più i costi dell’azione legale, richieste dallo studio e s’impegnò anche a non distribuire più il testo già diffuso in circa 10.000 copie. L’autore, non consultato su questa vicenda, non ottenne neppure la restituzione delle copie restanti, presto bruciate. Così, l’importante volume veniva tolto dalla circolazione e dalla vendita per azione di un privato.
Il medesimo studio legale decise anche una seconda azione assai subdola, al fine di «sistemare» le copie della pubblicazione conservate nelle biblioteche: nel 1990, inviò una lettera e una documentazione «costruita», composta di alcune pagine relative al patteggiamento con l’editore del volume — mai oggetto di sentenza processuale —, più un altro scritto — riguardante il processo del 1989, che di per sé aveva avuto come oggetto solo il volantino scritto dal conte Nikolai D. Tolstoy e distribuito da Nigel Watts —, aggiunto «per errore di segreteria». Intimoriti, numerosissimi bibliotecari s’affrettarono a rimuovere il volume, sostituendolo presto con una versione più «ufficiale» dell’accaduto, redatta in due volumi da un «comitato» — coloro ai quali erano stati «prestati» i documenti degli archivi pubblici britannici, poi «smarriti» —, composto da ex militari, da uomini legati al Foreign Office e da un giornalista protagonista di un clamoroso voltafaccia. Questo dossier — che gli autori dicono frutto di lavoro non retribuito e pubblicato in sole mille copie — «ovviamente» scagiona Maurice Harold Macmillan (19).
Di nuovo, per un’azione del tutto privata e infondata — giacché i legali si rifiutarono di inviare una seconda lettera ai bibliotecari, al fine di correggere quanto definito «banale errore» — la verità storica e le vere responsabilità di una tragedia colossale, consumatasi esattamente cinquant’anni fa, sono state censurate in Inghilterra e in Galles, ma non nella Scozia situata al di fuori della giurisdizione inglese.
Su quest’intera vicenda, fatta di ambigui e inquietanti rapporti intessuti fra un certo settore del potere politico e un certo settore del mondo giudiziario britannici, lo studioso anglo-russo commenta:
«Molti in Inghilterra affermano che Lord Aldington sia massone ed è noto che molti fra i giudici inglesi siano massoni, anche se esistono diverse massonerie con caratteristiche differenti… Ma se esiste un complotto, tutto questo vi assomiglia molto; e la sua ideologia non ha nulla a che vedere con il comunismo: si tratta, invece, di ambienti e di mentalità massoniche. Non posso provare in dettaglio queste realtà, ma è un giudizio diffusissimo in Inghilterra» (20).
3. A fronte di queste vicende inquietanti, a decenni di distanza dal sacrificio di migliaia d’innocenti e dal tradimento di certi ambienti militari e diplomatici britannici, resta ancora il grande dramma delle popolazioni cosacche e caucasiche che si trovarono costrette a scegliere un male per loro concretamente e allora «minore» — il Terzo Reich — per tentare d’opporsi al totalitarismo socialcomunista sovietico, potendo sfruttare solo lo spazio angusto lasciato libero dallo scontro di natura rivoluzionaria che oppose i contendenti della «guerra civile europea» negli anni 1940, ma soprattutto patendo gravemente le conseguenze altrettanto rivoluzionarie delle scelte operate dal mondo liberal-democratico, nonché l’assenza di un fronte autenticamente contro-rivoluzionario che avrebbe premiato e liberato da ogni ambiguità — peraltro, come si è visto, infondata — la lotta anticomunista dei cosacchi, dei caucasici, dei russi di Andrej A. Vlasov e delle altre migliaia di volontari e di freedom fighter che combatterono allora contro il socialcomunista sovietico.
Questo dramma viene ricordato, in forma letteraria, anche dallo scrittore friulano Carlo Sgorlon, il quale, interpretando i sentimenti del cosacco Urvàn, un personaggio di un romanzo a sfondo storico — L’armata dei fiumi perduti, pubblicato originariamente nel 1985 (21) —, afferma lapidariamente: «Ricordò che subito dopo l’arrivo dei tedeschi nelle loro terre era nato qualcosa che parve di buon auspicio, una divisione cosacca comandata dal generale tedesco Helmut von Panwitz, che era uno studioso e un ammiratore del mondo slavo e cosacco. Era l’unico tedesco che non li considerasse una razza inferiore. Ma l’illusione era durata poco, e la divisione di von Panwitz era divenuta soltanto un’unità di rincalzo per i tedeschi, ossia una cosa lontanissima da quella sperata dai cosacchi» (22).
Alla tragedia degli anticomunisti dell’oriente europeo — cosacchi e slavi meridionali in particolare —, uccisi o internati nel GULag, si è aggiunta, poi, la tragedia della speranza infranta di milioni di persone che hanno cercato la libertà e la giustizia — la vera pace — e che sono state invece costrette a subire decenni di mistificazione storica. Appaiono, allora, inconsapevolmente profetiche le parole dell’ataman Petr N . Krasnov contenute nell’ultima pagina del suo Comprendere è perdonare, vergate dopo la guerra civile russa e prima della seconda guerra mondiale, ma irrealizzate a lungo dopo il 1945, anche grazie alle complicità e alle debolezze delle democrazie occidentali: «La bandiera rossa sventolava ancora sulla Russia prostrata — scriveva l’ataman cosacco —. Ma un muto spirito di vendetta già sorgeva nel cuore del suo popolo: la vendetta dei figli per i loro padri e per la loro patria, la vendetta dei fedeli per la loro chiesa profanata, la vendetta degli uomini per l’umanità.
«Nemesi, la sagace, Nemesi, l’eterna, batteva le sue ali sulla Russia, e il cuore del suo popolo sentiva che ogni ora avvicinava sempre più quella vendetta che sta sopra ogni vendetta umana….la vendetta di Dio!» (23).
Così, di fronte al cinismo e alla crudeltà degli uomini, particolarmente verso il popolo cosacco — e idealmente verso tutti gli altri popoli coinvolti nella tragedia dei rimpatri forzati —, vessato in modi diversi quantunque ugualmente meschini e violenti da tutti i fronti che combatterono la seconda guerra mondiale, bene si adattano, anche come augurio «oltre il tempo», le parole che riecheggiarono fra le intemperie, nell’ora dello spostamento di quell’intera popolazione profuga dalla Carnia italiana alla valle della Drava austriaca, quando «le donne e i bambini imploravano: “Kristoss spassi nus Kasakow! ”» (24), «Cristo salva noi cosacchi!».
Marco Respinti
Note:
(1) WILLIAM HENRY CHAMBERLIN, Storia della Rivoluzione russa, trad. it., 3a ed, Einaudi, Torino 1942, vol. II, p. 183, dove vengono descritte anche le differenze fra Vandea francese e cosacchi anticomunisti.
Su questo parallelo, cfr. MICHEL HELLER, La rivoluzione russa nello specchio della Vandea, DMITRIJ KlJUCEV, Lenin e la Vandea, e ALAIN BESANCON, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in AA. VV., La Vandea, con una prefazione di Raoul Girardet, trad. it., con una premessa di Sergio Romano, Corbaccio, Milano 1995, rispettivamente pp. 203-210, pp. 211-218 e pp. 219-233. Inoltre, ALEKSÀNDR ISAEVIC SOLZENICYN, Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, trad. it., in Cristianità, annoXXI, n. 222, ottobre 1993, pp. 13-14.
(2) Per informazioni sulla «guerra civile» russa, cfr. W. BRUCE LINCOLN, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, trad. it., Oscar Mondadori, Milano 1994.
(3) PETR NIKOLAEVIC KRASNOV, Il grande territorio militare del Don, in Archiv russkoj revoljutsii, V, p.205, cit. in W. H. CHAMBERLIN, op. cit., vol. II, p. 185. L’ataman fu anche autore di noti romanzi storici come Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa (trad. it., Salani, Firenze 1929; reprint 1974) e Comprendere è perdonare (trad. it., Salani, Firenze 1929).
(4) Sulla vicenda di Andrej A. Vlasov, cfr. ADRIANO BOLZONI, I dannati di Vlassov. Il dramma dei russi antisovietici nella seconda guerra mondiale, Mursia, Milano 1991; PIER ARRIGO CARNIER, L’armata cosacca in Italia. 1944-1945, 2a ed. ampliata, Mursia, Milano 1990, in particolare cap. V, Uniti nella lotta, rivali nel potere. P. N. Krassnoff e A. A. Wlassow, pp.93-105; e IDEM, Lo sterminio mancato. La dominazione nazista nel Veneto orientale1943-1945, 2a ed., Mursia, Milano 1988, passim. Inoltre, cfr. A. I. SOLZENICYN, Arcipelago Gulag. Saggio di inchiesta narrativa, vol. I, 1918-1956, Mondadori Oscar, Milano 1990, parte prima, L’industria carceraria, cap. VI, Quella primavera, pp. 244-281; NIKOLAI DMITREVIC TOLSTOY, Victims of Yalta, 2a ed. riveduta e aggiornata, Corgi, Londra 1979, cap. XII, The End of General Vlasov, pp. 349-380; WARREN H. CARROL, 70 years of the Communist Revolution, Trinity Communications, Manassas [Virginia] 1989, cap. IV, Communism in World War II (1939-1945), pp. 205-224; e LORD NICHOLAS WILLIAM BETHELL, The Last Secret. Forcible Repatriation to Russia 1944-1947, 2a ed. con un nuovo epilogo, Penguin, Londra 1995, pp. 100-102 (1a ed. 1974). Quest’ultimo è noto anche per il volume La missione tradita. Come Kim Philby sabotò l’invasione dell’Albania, trad. it., Mondadori, Milano 1986; a presentazione, cfr. OSCAR SANGUINETTI, Albania 1949-1953: la liberazione sabotata, in Cristianità, anno XIV, n. 133, maggio 1986, pp. 9-11.
Cfr. anche il capitolo Le vittime di Yalta, nel volume miscellaneo di PIERO BUSCAROLI, La vista, l’udito, la memoria. Scritti d’arte, di musica, di storia, Fogola, Torino 1987, pp. 448-477.
In tutte le citazioni si sono mantenute, anche quando fra loro differenti, le grafie dei termini e dei nomi russi e tedeschi prescelte dagli autori e dai traduttori.
(6) Cfr. N. D. TOLSTOY, Victims of Yalta, Hodder & Stoughton, Londra 1977, 2a ed. L’edizione statunitense è stata pubblicata come The Secret Betrayal, Scribner’s, New York 1978.
(7) Cfr. IDEM, The Minister and the Massacres, Century Hutchinson, Londra 1986. Il conte è autore di altri volumi storici — uno dei quali, Stalin’s Secret War (Cape, Londra 1981), si collega a quelli sui rimpatri forzati — nonché di opere di narrativa e di studi d’argomento celtico e arturiano: in italiano, cfr. il romanzo Merlino e il regno incantato (Rusconi, Milano 1992).
(8) Cfr. LUCA ROMANO, Stalin fu il boia, MacMillan fornì la corda, in il Giornale, 28- 10-1994; BENEDETTA GENTILE, È un Lord, guai a chi lo tocca, in L’Espresso, anno 40, n. 39, 30- 9-1994, p. 86; P. BUSCAROLI, Sangue di cosacchi, viltà di inglesi, Gli anticomunisti mandati al macello, L’infamia nella valle della Drava, in il Giornale, rispettivamente 15, 22 e 29-1-1995 — in parte tratti da IDEM, op. cit., pp. 448- 477 —; MAURIZIO BLONDET, Tolstoj censurato in Gran Bretagna, in Avvenire, 11-5-1995; e N. D. TOLSTOY, Venduti a Stalin, intervista a mia cura, in Secolo d’Italia, 2-6-1995.
Lo storico è stato ospite, il 26 aprile 1995, dello United World College of the Adriatic, di Duino-Sistiana, in provincia di Trieste, invitato dal professor Paul Mac Dermott, e, il 27, della facoltà di Scienze Politiche dell’università di Trieste, nonché del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche della facoltà di Scienze Politiche, nella sede goriziana del medesimo ateneo, per invito del professor Enrico Fasana. In quest’occasione il conte mi ha illustrato i suoi studi e narrato quanto accaduto dopo la pubblicazione di The Minister and the Massacres. Come «antefatto», cfr. ROBERTO DE MATTEI, Schiavi di Mosca e vittime di Yalta, in Cristianità, annoVIII, n.60, aprile1980, pp.9-12. Cfr. anche le opere citate del barone Lord Nicholas W. Bethell, di Pier Arrigo Carnier, di Adriano Bolzoni e di Piero Buscaroli.
(9) N. W. BETHELL, The Last Secret. Forcible repatriation to Russia 1944-1947, 2a ed. cit., p. 273.
(10) Sugli slavi meridionali, cfr. NORA BELOFF, Tito fuori dalla leggenda. Fine di un mito, trad. it., Reverdito, Trento 1987; nonché, a
presentazione, la recensione di Renato Cirelli, in Cristianità, anno XV, agosto-settembre-ottobre 1987, n. 148-150, pp. 6-8; e MICHAEL LEES, The Rape of Serbia. The British Role in Tito’s Grab for Power 1943-1944, Harcourt Brace Jovanovich Publishers, San Diego-New York-Londra 1990.
(11) Cfr. N. D. TOLSTOY, The Minister and the Massacres, cit., cap. 11, Unravelling a Double Conspiracy, pp. 324-360.
(12) IDEM, Forced Repatriation to the Soviet Union. The Secret Betrayal, in Imprimis [newsletter mensile dell’Hillsdale College, di Hillsdale, nel Michigan], anno XVII, n. 12, dicembre 1988.
(13) Cfr. WILLIAM RAYNOR, 10,000 bodies in Tito’s death pit, in The Indipendent, 12-5-1990. M. LEES, op. cit., pp. 4-5 e 328-330, attribuisce grande importanza alle scoperte del conte Nikolai D. Tolstoy, il quale — peraltro — appare fra i più cauti nella stima delle vittime slave meridionali.
(14) Comunicazione del conte Nikolai D. Tolstoy all’autore, Duino-Sistiana (Trieste), 26 e 27-4-1995.
(15) Comunicazione del conte Nikolai D. Tolstoy all’autore, cit.
(16) Comunicazione del conte Nikolai D. Tolstoy all’autore, cit.
(17) Comunicazione del conte Nikolai D. Tolstoy all’autore, cit.
(18) Tale attesa sentenza — di cui non sembra che la stampa italiana abbia dato notizia — è giunta poche settimane dopo che Nigel Watts, il 27 aprile 1995, era stato condannato dalla High Court a diciotto mesi di reclusione per il suo accanimento nell’accusare Lord Aldington. Nigel Watts, peraltro, è stato rilasciato dopo pochi giorni di detenzione.
(19) Cfr. ANTHONY COWGILL, LORD THOMAS BRIMELOW e CHRISTOPHER BOOKER, The Repatriations from Austria in 1945, vol. I, The Report of an Inquiry; vol. II, The Documents, Sinclair-Stevenson, Londra 1990. Su queste complesse vicende, cfr. IAN MITCHELL a colloquio con N. D. Tolstoy, The Count and the cover-up, parte I, in Topical Books, autunno 1991, pp. 26-29; e IDEM, Foreign deaths with British honour, parte II, ibid., inverno 1991, pp. 34-41.
(20) Comunicazione del conte Nikolai D. Tolstov all’autore, cit.
(21) Cfr. CARLO SGORLON, L’armata dei fiumi perduti, con una introduzione di Leone Piccioni, Oscar Mondadori, Milano 1987.
(22) Ibid., p.84. Un altro studioso e scrittore italiano, Claudio Magris, ha utilizzato lo sfondo della vicenda dei cosacchi in Carnia per un’opera letteraria divenuta piuttosto famosa, Illazioni su una sciabola (Garzanti, Milano 1992; 1a ed.1984). Questo racconto, pur facendo esplicito riferimento, fra altre, alle opere storiche del conte Nikolai D. Tolstoy e di Pier Arrigo Carnier, appare reiterare i pregiudizi negativi sull’epopea vissuta da quel popolo durante la seconda guerra mondiale. Cfr. anche MATTEO COLLURA, Magris: la maledizione dei cosacchi, in Corriere della Sera, 23-7-1995.
(23) P. N. KRASNOV, Comprendere è perdonare, cit., p. 342.
(24) P. A. CARNIER, L’Armata cosacca in Italia. 1944-1945. 2a ed. cit., p. 184.