Ferdinando Leotta, Quaderni di Cristianità, anno II, n. 4, primavera 1986
Mario Deaglio, Economia sommersa e analisi economica, Giappichelli Editore, Torino 1985, pp. 200, L. 15.000
Novantaseimila miliardi.
Circa un quinto dell’insieme dei beni e dei servizi prodotti sul territorio nazionale.
È questa la misura dell’economia sommersa, secondo la «stima “ragionevole”» per l’anno 1982 compiuta da Mario Deaglio e riportata in appendice al suo studio su Economia sommersa e analisi economica.
Il noto economista — già direttore del quotidiano Il Sole-24 Ore e docente di contabilità nazionale presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Torino — è pervenuto a questo risultato, che avverte non essere né certo né definitivo, attraverso «diverse stime parziali, basate sul confronto di serie statistiche per vari motivi non “inquinate” dalla sommersione» (p. 169). D’altronde, l’incertezza in questa materia è d’obbligo, se si pensa che «la quasi totalità delle stime effettuate, relative ad una ventina di Paesi, risulta compresa tra il 3 e il 30 per cento del prodotto interno lordo emerso (la maggioranza è compresa tra l’8 e il 20 per cento), ma per ogni paese le stime si rivelano assai diverse l’una dall’altra» (p. 116).
Ma, che cos’è l’economia sommersa?
Essa viene talvolta identificata con il «lavoro nero», talaltra con l’evasione di materia imponibile: l’autore definisce come appartenente a questa realtà «qualsiasi attività economica a qualsiasi livello esaminata, la quale sfugga, per qualsivoglia motivo, all’osservazione dell’economista» (p. 13). L’interesse per questa «componente inafferrabile» dei sistemi economici nasce quasi improvvisamente, all’inizio degli anni Settanta, in concomitanza sia dell’intensificarsi dell’attenzione per i comportamenti fiscali — evasione —, sia del crescente interesse per il funzionamento del mercato del lavoro — «lavoro nero» —, sia dell’esigenza della contabilità nazionale di descrivere dettagliatamente una realtà economica sempre più complessa.
Il pregiudizio di irregolarità, che accompagna, presso la pubblica opinione, l’idea della sommersione in economia, in alcuni casi, secondo l’autore, non è fondato. Egli divide il sistema economico in tre parti: «economia ufficiale», «economia sommersa extrafamigliare» ed «economia sommersa che si esaurisce all’interno delle famiglie» (p. 162). La seconda, «che si sommerge volontariamente ma che dovrebbe, in via normale, essere una parte dell’economia ufficiale» (p. 19), è certamente irregolare; la terza, «che si potrebbe definire come naturalmente o involontariamente sommersa» (ibidem), non è irregolare; «il mercato intrafamigliare — precisa Mario Deaglio — non può, a stretto rigore, essere definito come mercato irregolare, in quanto esso non implica certamente la violazione di alcuna norma» (p. 72).
Sia per questa ragione, sia perché «la misurazione complessiva» di questa parte dell’economia presenta numerose difficoltà — infatti, sovente, i servizi resi all’interno delle famiglie sono senza prezzo a causa della loro irrepetibilità e non acquistabilità (p. 64) —, l’economia intrafamigliare viene esclusa dalla «stima “ragionevole”» compiuta dall’autore.
Invece, a formare i novantaseimila miliardi dell’economia sommersa extrafamigliare concorrono non soltanto le attività irregolari svolte in violazione della normativa urbanistica, di quella del diritto del lavoro o di quello tributario, ma anche quelle propriamente criminali come il racket, i furti organizzati, la prostituzione organizzata, la produzione e il commercio di droga (pp. 171-172). Non sono più i tempi di John Stuart Mill, il quale escludeva che dall’economia criminale potesse avere luogo produzione e argomentava che la medesima conduce a distruzione anziché a creazione di ricchezza. «Purtroppo — motiva Mario Deaglio — in questi anni l’attività criminale ha fatto la sua comparsa come settore economico organizzato e di rilevanti dimensioni […]. La scomparsa di mille autocarri carichi di merci in un anno sulle strade italiane non può definirsi semplicemente un trasferimento improprio: è molto più realistico identificarlo come un costo di produzione “normale” per il sistema italiano dei trasporti. Le taglie che i negozianti pagano al “racket” possono anch’esse essere equiparate ad un costo di produzione, un modo per acquistare una indispensabile sicurezza. Per la droga, poi, si è in presenza di un bene prodotto illegalmente, per il quale esiste una sofisticata organizzazione di vendita e che è anche oggetto di un vivace commercio internazionale» (p. 171). La cifra alla quale si perviene ammonta a ventimila miliardi, ai quali vanno sottratti, al fine di ottenere la stima del Prodotto Interno Lordo sommerso, seimila miliardi, corrispondenti ai «maggiori costi che le imprese sono costrette a sostenere per effetto dell’esistenza di questo settore» (p. 172). Le attività sommerse non criminali ammontano a loro volta a 82.831 miliardi così ripartiti:
2.732 in agricoltura, corrispondenti al 10% del dato ufficiale;
17. 329 nell’industria in senso stretto, corrispondenti all’11,2% sempre del dato ufficiale;
14.722 nelle costruzioni, e la percentuale di raffronto è, in questo caso, del 40%;
48.048 infine nel settore dei servizi, pari al 25.3% dell’attività emersa (p. 177).
La somma di tutte queste stime parziali, con l’aggiunta dell’economia criminale, è di 96.831 miliardi, pari al 20,6% del dato ufficiale, a sua volta quantificabile in 469.797 miliardi (p. 178).
Perché questo impero sommerso?
Sul tema si interrogano in molti (cfr., per esempio, Mondo Economico, n. 22, 3-6-1985, pp. 40 ss.).
Vi è una spiegazione fiscale, che vede nell’aumento dell’imposizione negli ultimi due decenni — e nel conseguente divario tra costo del lavoro e retribuzione di fatto — il principale incentivo all’evasione, e quindi alla sommersione. Secondo Mario Deaglio, la carenza di tale spiegazione sta nel fatto che essa si limita «a spiegare quella parte della sommersione dell’attività economica che è collegata all’evasione, e, più specificamente, all’evasione dovuta ad attività lavorative irregolari» (p. 35).
Segue quindi la spiegazione basata sulle teorie dualiste del mercato del lavoro — «lavoro nero» —, le quali costituiscono in Italia il filone interpretativo più consistente nelle ricerche sull’economia sommersa. Questa spiegazione individua le ragioni principali della sommersione nell’alto costo del lavoro, nella scarsa mobilità della manodopera e nel basso livello di sviluppo. La sommersione, in questo caso, rappresenterebbe in maniera chiara la reazione alle rigidità imposte al sistema dalle politiche economiche seguite in Italia. Di conseguenza, «si sarebbe formata […] un’offerta di lavoro consona alla “ragione del mercato”, ossia a prezzi sensibilmente più bassi del costo ufficiale del lavoro» (p. 47). Neppure questa seconda spiegazione pare sufficiente all’autore, che, alla ricerca di una soluzione più generale, individua e passa a indicare «gli altri fattori della sommersione» (p. 56), fra cui, principalmente, la diversa qualità del lavoro, la gravosità degli adempimenti formali e il troppo elevato costo di soluzioni alternative.
Quanto alla diversa natura del mercato, «il dipendente di un’impresa metalmeccanica che svolge un lavoro secondario in qualità di idraulico della zona. Ha quindi la possibilità di determinare il prezzo o la quantità della prestazione, una possibilità che certo gli manca sul mercato ufficiale» (p. 57).
Circa la diversa qualità del lavoro, «si può senz’altro ipotizzare che il grado di soddisfazione che un’attività sommersa può dare a chi la compie sia diverso da quello di un’attività ufficiale» (ibidem). Analogamente, con una certa frequenza, accade che proprio nel lavoro sommerso si possano esplicare «potenzialità lavorative che non possono trovare espressione nelle attività principali. La sommersione risulta allora legata al fenomeno della dequalificazione professionale sul mercato ufficiale» (pp. 57-58).
Un’ulteriore motivazione, di natura non fiscale ma amministrativa, dipende dalla «gravosità di adempimenti formali, considerati dal soggetto sproporzionati rispetto all’entità dell’attività che intende svolgere o in ogni caso al di fuori delle proprie possibilità. […] È il caso di chi esercita abusivamente una professione, oppure omette procedure per la registrazione di attività che esercita solo sporadicamente» (p. 59).
Infine, anche «il troppo elevato costo-opportunità di soluzioni alternative» può indurre a un’attività sommersa, che, in questo caso, è costituita da «lo svolgimento all’interno delle famiglie di attività economiche il cui prodotto si sarebbe potuto acquistare dall’esterno».
Dunque, vengono addotte molte spiegazioni: tante, sembrerebbe, quante possono essere le motivazioni capaci di indurre il singolo a scegliere di produrre o di scambiare un bene, secondo modalità non rilevabili dall’economista.
Ma non tutte queste spiegazioni hanno certamente la stessa importanza.
Dopo avere percorso a ritroso gli ultimi quarant’anni in un breve excursus storico-economico intitolato Le variazioni qualitative dell’economia sommersa (pp. 78-84), nel concludere la parte dedicata agli aspetti microeconomici della sommersione, Mario Deaglio ritorna alla spiegazione fiscale e si pone due quesiti: «Perché mai, in Paesi democratici, il livello della tassazione può differire così sensibilmente da quello accettabile dal contribuente-elettore da dare origine ad una evasione fiscale radicata e diffusa?»; e ancora: «Perché mai chi non vuole pagare le imposte decide di operare nell’economia sommersa invece di cercare, in quanto cittadino, di far ridurre o abolire le imposte stesse?» (p. 84).
Per quanto riguarda il primo interrogativo, lo sfasamento tra l’entità del livello di tassazione e quella accettabile dal contribuente deriverebbe da un altro sfasamento, di natura temporale. In proposito l’autore riporta il pensiero di due economisti della scuola della Public Choice, J. M. Buchanan e Lee, secondo cui «un aumento delle aliquote fiscali può tradursi in un aumento iniziale del gettito della tassazione, così come una loro riduzione può tradursi in una riduzione degli introiti, anche se nel lungo termine prevarranno gli effetti opposti. Il lungo termine, però, spesso non interessa ai politici alla ricerca di una rielezione» (p. 85).
Sembra quindi di poter capire che, almeno in parte, la responsabilità dell’eccessivo livello dell’imposizione fiscale debba ascriversi ai politici, «che mirano in primo luogo a conservare il potere» e che, pertanto, devono «tenere a mente i tempi politici e non i tempi economici» (ibidem).
Viene riferita anche l’opinione di E. L. Feige e McGee, secondo cui «la sfasatura deriva più semplicemente dalla mancanza di informazioni in possesso dei politici circa la vera natura dei rapporti tra imposizione fiscale e reddito» (ibidem). L’alleggerimento della pressione fiscale, e l’esigenza di gettito tributario, sarebbero dunque conciliabili, se non trovassero ostacolo nell’affanno della rielezione, che tormenta i politici.
Una risposta al secondo interrogativo si può avanzare «sulla base di una funzione di utilità del contribuente-elettore» (ibidem). Questi, al fine di conseguire il risultato dell’«abbassamento del proprio carico fiscale», ha due possibilità: «la prima consiste in un’azione politica volta ad ottenere la riduzione delle aliquote fiscali» (ibidem), e il costo di questa soluzione è direttamente dipendente dalla quantità di tempo necessario nonché dalla effettiva possibilità di successo; «la seconda consiste nell’evasione fiscale e nella corrispondente sommersione dell’attività economica» (ibidem), e in questo caso il costo è rappresentato dal rischio fiscale.
«È chiaro — prosegue Mario Deaglio — che la condizione perché si preferisca la prima strada è che il sistema politico ed il sistema fiscale siano entrambi considerati efficienti dal soggetto: l’efficienza politica, infatti, intesa come attitudine a tradurre in realtà le modifiche legislative ed in particolare le modifiche fiscali desiderate dai cittadini, riduce i tempi dell’azione politica necessaria, mentre l’efficienza fiscale fa salire i costi dell’evasione.
«È inoltre necessario che il soggetto ritenga che la sua istanza di riduzione delle aliquote risulti ampiamente condivisa, ossia che la sua azione abbia un’elevata probabilità soggettiva di successo» (pp. 85-86).
Se invece si versa in una situazione di inefficienza sia del sistema politico che di quello fiscale, al soggetto converrà, nella maggior parte dei casi, la via dell’evasione: «sale infatti il costo dell’azione per modificare le norme di legge, sia per l’aumento del tempo necessario, sia per la valutazione che il singolo dà delle proprie probabilità di riuscita (p. 86). D’altro lato, l’inefficienza fiscale rappresenta «una riduzione del rischio di scoperta dell’evasione» (p. 87).
Secondo l’autore, «l’Italia, con la sua ampia sommersione dell’economia, può essere considerata come un esempio appropriato: l’evasione fiscale diffusa può essere considerata come una soluzione razionale che rende minimi i costi che il soggetto deve sopportare per realizzare un determinato reddito» (ibidem).
Una terza ipotesi si ha quando l’efficienza fiscale si accompagna all’inefficienza politica. In questo caso «ci si trova in presenza di uno “stato forte”, di un regime autoritario dal buon funzionamento tecnico, […] se la pressione fiscale è considerata eccessiva assai rischiosa, il cambiamento pressoché impossibile, il cittadino cercherà rifugio nell’economia famigliare, oppure deciderà di ritirare dal mercato parte del suo lavoro e del suo capitale. Il livello dell’attività economica diminuirà» (ibidem).
L’ultima ipotesi esaminata, cioè quella della inefficienza fiscale accompagnata all’efficienza politica, sembra più di scuola che realistica, e formulata dall’autore forse solo per completezza di quadro: in questa situazione, «i1 cittadino-contribuente ha di fronte due alternative, dal costo relativamente basso rispetto alle analoghe situazioni in altri sistemi […]: può evadere con relativa impunità e può cambiare le cose con relativa facilità. Si può, però, osservare che si tratta di una condizione instabile: o gli individui sceglieranno l’azione politica e decideranno di instaurare un sistema fiscale efficienti su basi che ricevano il consenso della maggioranza — e quindi il Paese in questione evolverà verso una situazione del primo tipo — oppure è difficile immaginare che un sistema politico possa mantenersi a lungo efficiente in presenza di un apparato fiscale malamente funzionante» (ibidem).
Impietosa e preoccupante, ma veritiera, la seconda risposta è così riassumibile: in generale — e in Italia in particolare —, chi non vuole pagare le imposte o intende sottrarsi — almeno in parte — a una pressione fiscale eccessiva, non potendo confidare nell’efficienza del sistema politico, deve diventare un sub e sperare nell’inefficienza di quello fiscale.
Riflettendo sul caso italiano, non si può, però, fare a meno di considerare che, con l’avvento della normativa penale tributaria introdotta con la legge n. 516 del 7-8-1982, e della prassi del blitz adottata dalla Magistratura e dalla Guardia di Finanza, la speranza nell’inefficienza del sistema fiscale è destinata a morire.
Se questo è vero — come è vero —, in Italia non si configura più perfettamente l’ipotesi del secondo tipo, cioè quella caratterizzata da inefficienza politica e fiscale, ma i due fatti citati indicano chiaramente che nel nostro paese ci si sta avvicinando all’ipotesi del terzo tipo, cioè a quella di inefficienza politica e di efficienza fiscale, tipica «di uno “stato forte”», di un regime autoritario dal buon funzionamento tecnico» (ibidem).
Questa diversa condizione — qualora si dovesse realizzare — è destinata a determinare il ripiegarsi da parte del cittadino nell’economia famigliare, il ritiro dal mercato di parte del suo lavoro e del suo capitale, e infine una diminuzione del livello dell’attività economica.
Vi è da sperare che — sempre qualora ciò avvenga — si accompagni a un risveglio civile e morale delle coscienze, a vantaggio dell’attività politica.
Il volume di Mario Deaglio ha carattere di dispensa universitaria, e non di scritto divulgativo, quindi con parti difficilmente fruibili dai non specialisti in contabilità nazionale come quelle dedicate all’entità degli errori che si compiono nell’esame di grandezze macroeconomiche, alla valutazione della distorsione che diversi livelli di sommersione provocano sui dati ufficialmente rilevati, ai metodi di stima oggettiva dei fenomeni economici costituenti l’economia sommersa (capp. III e IV).
Ma, accanto a queste parti, ve ne sono altre accessibili anche ai «non addetti ai lavori», che consentono un approccio «professionale» al problema dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale, e che, nello stesso tempo, stimolano riflessioni potenzialmente fruttuose non soltanto nel campo strettamente economico, ma anche in quello politico e sociale.
Ferdinando Leotta