Di Giuseppe Lorizio da Avvenire del 15/06/2019. Foto da articolo
La serie tv “Il trono di spade”, trasposizione della saga dello scrittore inglese, merita una riflessione teologica: rimanda infatti a una visione “pagano-politeista”. L’intera vicenda sembra riferirsi a un “Dio dai mille volti” che se ha un volto solo è quello della morte
Il trono di spade (Games of Thrones) suggestiva serie tv ispirata alla saga letteraria di George R. R. Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco – merita una riflessione anche dal punto di vista teologico, per quanto provvisoria essa possa essere, visto che la serie stessa ha visto il suo epilogo, ma non così la fonte letteraria da cui è tratta. Non è difficile sottolineare il carattere “pagano-politeista” dell’orizzonte religioso e di senso in cui si svolge l’intera vicenda, la quale, piuttosto che a un Dio unico, sembra riferirsi a un «Dio dai mille volti», che, se ha un solo volto, è quello della morte. Come ha scritto Adriano Bernocchi suFamiglia cristiana,quella rappresentata è una visione «molto laica» della realtà, non possiamo però non lasciarci interrogare dalla dimensione «religiosa», pur presente nella narrazione. Visione che finisce col coincidere col suo volto “umanistico”.
Il punto di arrivo (o forse meglio sarebbe denominarlo approdo) di tale prospettiva, decisamente immanente, è il dialogo che si svolge nella prigione fra Tyrion e Jon, quando il nano formula la domanda: «Allora c’è vita dopo la morte?» e Jon risponde: «No, non direi». Una risposta che l’interlocutore ritiene rassicurante, in quanto ciò che desidera più di ogni cosa è l’oblio. Eppure sarà proprio il nano saccente o sapiente (ciascuno può giudicarlo) a sostenere che «ciò che unisce le persone» non sono «armi, oro, vessilli», ma le «storie», ovvero i racconti. In ogni caso Tyrion avrà ciò che desidera, ossia l’oblio, in quanto nel libro, in cui si raccontano le vicende dei Sette Regni e che Samwell Tarly presenta nel finale, non sarà menzionato. Questo dialogo incrocia quello fra la pretendente al trono Danaerys e Sansa (sorella di Jon, legittimo erede). Si mette in campo, in entrambi i momenti, il conflitto fra “amore” e “dovere”. Dopo aver affermato che l’amore supera la ragione, Tyrion convince Jon che «talvolta» esso distrugge il dovere, così come Sansa ritiene che l’amore verso Danaerys possa distogliere l’eroe dal compito cui è destinato. Talvolta bisogna uccidere l’amore per compiere il proprio dovere/destino.
Ma cosa genera questo assoluto nichilismo o, se si vuole, questo tipo di laicità e questo cinismo etico? Nella policromia fantasmagorica delle divinità che abitano e orientano la saga, emergono alcune prospettive inquietanti e decisamente fuorvianti dell’esperienza religiosa. Mi limito a segnalarne un paio. In primo luogo la figura dell’«Alto passero», una sorta di fondamentalista pauperista che sovrintende il grande tempio di Baelor, destinato alla distruzione e alla fine di questa comunità, dove si confonde la religione con l’integralismo etico (finale sesta stagione). In secondo luogo Melisandre (sacerdotessa di R’hllor e «visitatrice del buio»), che venera il «Signore della Luce» e ritiene che tutte le altre divinità e i loro seguaci vadano sacrificati. È capace addirittura di far risorgere Jon e di profetizzare. Si tratta di una visionaria, del cui aiuto Jon nella fase finale della saga ritiene di non aver bisogno. Superata con successo l’avanzata dell’esercito dei morti, il suoscopo è giunto al termine e si toglie la collana che le dona un «eterno presente» a scapito della sua veneranda età (ottava stagione,terzo episodio).Due passaggi ulteriori sembrano molto importanti non solo per comprendere il testo, ma anche per misurarsi consapevolmente con questo straordinario fenomeno mediatico. La religione predominante nei Sette Regni è il culto di sette divinità, denominate rispettivamente: Padre, Madre, Guerriero, Fanciulla, Fabbro, Vecchia e Sconosciuto. Quest’ultimo potrebbe essere figura del “Dio ignoto”, che Paolo scorge in Atene. È interessante notare, oltre la simbologia numerologica, che nel momento in cui (secondo episodio dell’ultima serie) Brienne riceve l’investitura di «cavaliere dei Sette Regni», ciò accade nel nome di una triade divina (chi legge la saga in prospettiva indù potrebbe definirla una trimurti): ovvero il Guerriero che rappresenta il coraggio, il Padre che sta a significare la giustizia e la Madre la cura verso i deboli. Si passa cioè da un settenario a un ternario. E anche questo fa pensare.
Possiamo scorgere il nocciolo umanisticoantropologico degli eventi nell’esito finale della serie tv, allorché, la scelta ricade su Bran(don) Stark (lo Spezzato), sicché il trono di spade si propone nella forma di una sedia a rotelle. Intanto la decisione si fonda sul rifiuto di Jon Snow, che ne sarebbe legittimo erede, di sedere sul trono. L’eroe infatti non è destinato al governo e al potere, ma è colui che crea le condizioni di possibilità di uno Stato più giusto, attraverso il tirannicidio, anche se il tiranno è la donna amata: Danaerys, «nata dalla tempesta, prima del suo nome, madre dei draghi », che da «distruttrice di catene» si trasforma in crudele despota. E fa bene Umberto Folena, dalle pagine di questo giornale, a metterci in guardia se non da tutti coloro che intendono liberare l’umanità, almeno dai tiranni e dai despoti. Nella rappresentazione quello perpetrato dall’eroe è un tirannicidio fisico, nell’esistenza che si svolge al di qua dello schermo può benissimo trattarsi di un tirannicidio spirituale, ossia dell’opposizione sistematica a ogni prevaricazione del potere costituito e che intende costituirsi. Certo l’eroe paga di persona le sue scelte, e Jon paga tornando al suo posto fra i «guardiani della notte», metafora di un ruolo decisivo per la condizioneumana di ogni epoca.Neppure Bran lo Spezzato avrebbe voluto il potere, piuttosto lo accetta come compito: si è ridotto in tale condizione precipitando da una torre, ma da qui gli è stato dato il dono di trasformarsi nel «corvo con tre occhi», sicché sa guardare più lontano degli altri sia verso il passato sia verso il futuro. Così si rompe la «ruota» di un destino che vorrebbe il potere trasmettersi di padre in figlio, ossia in maniera dinastica, non più attraverso lo ius sanguinis delle monarchie parentali, ma attraverso un’elezione, che saggiamente designa chi non cerca il potere, anzi esprime il suo contrario (sub contrariaspecie).Nel consesso chiamato a designare il re, siede anche il personaggio che mi è più caro, Sam (Samwell Tarty) che rappresenta la figura dell’intellettuale, senza il cui lavoro di ricerca e di lettura, sarebbe tutto impossibile. Certo Tyrion è intelligente e scaltro, come, anche se in maniera diversa il «maestro dei sussurri», l’eunuco Varys. Sam, invece, obeso e imbranato, ha la passione, oltre che per il cibo, per i libri e la musica. Sa leggere e quindi decifrare i messaggi dei corvi, ma soprattutto, lavorando nella biblioteca del Castello nero, scopre, fin dalla prima stagione, come l’origine dei non morti siano gli estranei. Nel finale il fantastico Sam avanza l’idea che il re debba essere eletto non dai soli principi dei Regni, ma da tutti, ossia dal popolo. Si tratta dell’utopia della democrazia, immediatamente irrisa dagli elettori. Qualcuno dice che «sarebbe come far votare il mio cavallo ». In ogni caso, di fronte alla proposta di designare Bran, non solo non si opporrà, ma si porrà a servizio del nuovo regnante, al quale non vengono assoggettati tutti i Sette Regni, perché il Regno del Nord mantiene la sua indipendenza e trova la sua regina in Sarsa Stark, sorella dell’eroe. Non è bene vi sia un potere unico e universale e omologante, bisogna preservare dei residui di autonomia e di unicità, anche perché, come mostra la sorte di Arya Stark (l’altra sorella di Jon) vi sono terre inesplorate, dove le carte geografiche si fermano e verso cui la giovane guerriera orientail suo futuro.La scelta di andare oltre di Arya può evocare anche la necessità di andare oltre nell’interpretazione della saga, leggendola e godendola al netto delle pur deprecabili scene d’inaudita violenza, dell’apologia dell’incesto, degli effetti speciali e della splendida fotografia, chiedendoci quale messaggio può lanciare al nostro presente? E inoltre: il paganesimo soggiacente alla visione religiosa della serie è pre-cristiano o post-cristiano? L’insistenza sull’umano autentico, che uccide ogni tirannia e l’esito kenotico della metamorfosi del trono di spade che assume la forma di una sedia a rotelle ci hanno suggerito un approccio post- cristiano ai contenuti di un prodotto culturale che merita attenzione e riflessione.