« Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Mt 5,1-12a)
Oggi è la festa di Ognissanti. A proposito di questa solennità ci sarebbe una miriade di cose da dire. La più importante però è questa: i santi ci aiutano, ci sono amici, ci sono vicini, ma soprattutto ci chiamano… Ci invitano ad entrare nella loro compagnia, ad essere dei loro. L’annuncio del Regno di Dio, della sua prossimità, vicinanza e intimità, è il cuore della predicazione di Gesù. A partire soprattutto dall’introduzione dei “misteri della luce” nel Rosario ad opera di san Giovanni Paolo II, questa non è più solo una constatazione degli studiosi dei Vangeli, ma è diventata una verità sempre più “popolare”. In che cosa consiste però questo “Regno di Dio”? È solo «la pace, la giustizia e la salvaguardia della creazione», come suggeriva ironicamente Joseph Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret (p. 77)? Oppure incontriamo qui un mistero ben altrimenti profondo e impegnativo? D’altronde se Gesù ci avesse portato solo un ideale umano da realizzare, verrebbe spontaneo dire con Dante: « mestier non era parturir Maria » (Purgatorio III, 39)! Gli ideali gli uomini li sanno costruire da soli… E da soli sanno combinare disastri per realizzarli. In realtà dalle parole di Gesù comprendiamo che lui non è solo l’annunciatore del Regno di Dio, ma che con questo Regno si identifica. Che cosa ci ha dunque portato Gesù di nuovo e straordinario? Ci ha portato Dio! Non però un Dio lontano e astratto come un “ideale” da costruire, ma un Dio vicino, talmente vicino che, se crediamo in lui, ci viene dato « potere di diventare figli di Dio » (Gv 1,12). Non però “figli di Dio” per metafora, come tante volte gli uomini hanno immaginato, ma in modo reale. Il fatto che possiamo “diventarlo”, ci autorizza a parlare di “figli adottivi” rispetto a lui che era già Figlio prima ancora di nascere. Con una differenza però: mentre nelle vicende umane il figlio adottivo rimane irrimediabilmente diverso dai genitori, perché nelle sue vene non scorre il loro sangue, qui l’evento va preso con assoluto realismo: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! » (1Gv 3,1). I Padri della Chiesa non hanno perciò temuto di usare una parola molto impegnativa: “divinizzazione”. Per loro lo scopo della vita del cristiano è di essere realmente divinizzato e questo è il grande dono che ci ha portato Gesù. Non c’è qui però il rischio di dimenticare la differenza tra Creatore e creatura e quindi di cadere in un grossolano panteismo? Il rischio c’è, come in tutte le cose belle, ma uno sguardo più approfondito al mistero della Trinità è sufficiente a fugarlo: «Per accostarsi a quel mistero dell’unione con Dio, che i padri greci chiamavano divinizzazione dell’uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tenere presente anzitutto che l’uomo è essenzialmente creatura e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata “ad immagine e somiglianza” di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cfr. Col 1,16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità “altro” rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito santo, è “della stessa sostanza”; di conseguenza, il fatto che ci sia un’alterità non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in tre persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine, nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina, senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione » (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera su alcuni aspetti della meditazione cristiana – Orationis formas del 15 ottobre 1989, n. 14). Diventare Dio in senso panteistico, cioè “costituendo con lui un’identità assoluta” vorrebbe dire smettere di essere sé stessi… Vorrebbe dire, letteralmente, “sprofondare nel nulla” e questo certamente non è né buono, né desiderabile. La via che Gesù ci propone è ben diversa: è quella dell’amore. Nell’amore infatti i due amanti si fondono, ma rimanendo ciascuno diverso dall’altro… La diversità è anzi l’indispensabile presupposto e la bellezza stessa dell’amore. I santi sono quelli che hanno preso sul serio questa chiamata e, ciascuno a modo suo, in modi diversissimi e meravigliosi nella loro diversità, l’hanno realizzata. O meglio: hanno permesso che Dio la realizzasse nella loro vita. Smettiamola una buona volta di mettere ostacoli alla volontà di Dio… Lasciamo che Dio ci ami fino in fondo, ci trasformi, ci divinizzi, ci faccia santi. È il contributo più vero che possiamo dare alla riforma della Chiesa e alla salvezza del mondo. Il resto sono solo inutili chiacchiere…
Don Piero Cantoni