di Stefano Chiappalone
Scrivo queste righe al principio della fine, quando il declinante 2019 viene sepolto dai primi fiocchi di neve, mentre il lettore le riceverà alla fine del principio, quando i festeggiamenti per il 2020 saranno ormai trascorsi. È una semplice alternanza di cifre, peraltro convenzionali, datate nel nostro Occidente a partire dagli anni di Nostro Signore, sia pure approssimativamente, dato l’errore di calcolo di Dionigi il Piccolo (†526 ca.).
Eppure vi attribuiamo importanza, sentiamo il bisogno in qualche modo di “ordinare” il tempo, di trovare un senso al susseguirsi di giorni e di notti, a loro volta scandite dalle stagioni, a loro volta dagli anni. Così è stato sin dall’inizio della storia umana, contando gli anni a partire da un evento “fondativo” (ab urbe condita, dalla fondazione dell’Urbe, è l’esempio più eloquente), assegnando nomi ai mesi, intrecciando i cicli astronomici con quelli agricoli e con le feste religiose. Persino i calendari “politici” imposti ex novo hanno fatto parte integrante del tentativo di “rifare” la società: pensiamo al calendario rivoluzionario francese o a quello sovietico.
Anno nuovo, scadenze nuove. Non ci accontentiamo di appuntarle su un foglio: tra la fine e il principio acquistiamo o riceviamo calendari da muro e da tavolo, agende e agendine tascabili, oggetti appositi, dunque, oggi in gran parte pubblicitari, dalla grafica più o meno curata, ma epigoni industriali di forme d’arte che, in passato, sono state ispirate proprio dallo scorrere del tempo. Riportano alla mente quel grande calendario “da muro”, anzi sul muro, che è l’affresco trentino raffigurante il Ciclo dei mesi, dipinto da (o almeno attribuito a) Maestro Venceslao (6†1411 ca.) nel Castello del Buonconsiglio. Le 12 scene (oggi 11, essendo andato perduto il mese di marzo) narrano una fiaba cortese che si dipana nel corso dell’anno. Le attività che caratterizzano i diversi mesi insieme al mutare della natura sono descritte al contempo con realismo e “incanto”, secondo quello stile gotico internazionale che unisce meraviglia e naturalismo, sguardo d’insieme e cura del dettaglio, tipico dell’epoca in cui Giorgio di Liechtenstein (1360-1419), principe-vescovo di Trento, commissionò l’affresco: tra gli ultimi anni del Trecento e l’inizio del Quattrocento, tra un principio e una fine, questa volta di un intero secolo.
La carenza di spazio e soprattutto di competenza mi impediscono di soffermarmi sull’analogo affresco del Salone dei mesi, dipinto a Ferrara a Palazzo Schifanoia intorno al 1470. Accenno soltanto alle fonti, prossime e remote, di questi cicli imponenti: quella miriade di libri d’ore, almanacchi e tacuina sanitatis, veri e propri caleidoscopi le cui miniature proiettano cicli liturgici, temporali e agricoli che oggi perlopiù ignoriamo. Vuoi per la secolarizzazione della vita e la conseguente minore incidenza delle ricorrenze liturgiche, vuoi perché le attività agricole, in gran parte modernizzate, sono note solo agli addetti ai lavori essendo tutto a portata di supermercato, vuoi perché persino la domenica e le feste vengono travolte dalle aperture no stop, il nostro è ormai un calendario “coriandolizzato”, parafrasando ma non troppo un’efficace espressione del sociologo Giuseppe De Rita.
Tuttavia il vuoto non resiste a lungo: venute meno le semine e le mietiture, le processioni e le rogazioni, abbiamo un anno fitto di “giornate mondiali”. Il 17 marzo è la Giornata mondiale del sonno, il 20 della felicità, il 1° maggio della risata, il 9 della lentezza… Alcune sembrano scaturite dall’illusione di salvare il mondo, altre almeno strappano un sorriso, soprattutto celano (o mostrano) l’insopprimibile tentativo di dare un senso al tempo. Certo è che da un tale calendario Maestro Venceslao trarrebbe ben poca ispirazione.
Sabato, 25 gennaio 2020