Da La bianca Torre di Ecthelion del 20/04/2018. Foto da articolo
Il Sessantotto compie 50 anni, ma non è mai diventato grande, ed è pure a corto di lessico. Appena spente le luci della mostra milanese Revolution. Musica e ribelli 1966-1970 ‒ un cocktail lisergico di frutti scaduti come John Lennon, Allen Ginsberg e il boia Che Guevara ‒, a Reggio Emilia si bissa con Sex & Revolution! Immaginario, utopia, liberazione (1960-1977) in programma fino al 17 giugno a Palazzo Magnani nell’ambito della XIII edizione del Festival Fotografia Europea. Fantasia al potere, dicevano, ma glien’è rimasta poca.
Rivoluzione: quanta leggerezza in tuo nome. È stato il Sessantotto che ci ha insegnato a risciacquarci la bocca con questo termine inflazionato, nato per rifare il mondo e finito alla tivù commerciale a celebrare il mito borghese del nuovo urban crossover che è tutta un’app. Tutto è rivoluzione, nulla è rivoluzione. E la rivoluzione si è fatta pop e seriale, come la Marylin di Andy Warhol. Ma «la rivoluzione», diceva Luciano Bianciardi, «deve cominciare in interiore homine». Rivoluzione va infatti scritto maiuscolo perché è una cosa seria, anzi terribile. Un termine grave e greve, pesante come un macigno, un sasso che schiaccia. È il film horror trasmesso a reti unificate da che mondo è mondo, a partire da quando nell’Eden i nostri progenitori mandarono a gambe all’aria tutto per dare retta a uno che poi finì a strisciare sul ventre, ingollando polvere e schifezze. La Rivoluzione è una cosa seria che si dice delle cose serie. È un progetto titanico contro Dio per asservire tutto al nemico dell’umana natura. Ha prodotto ribellioni e sciagure, guerre e distruzioni, morti prime del corpo e morti seconde dell’anima.
Adesso però è una articolo di consumo in vendita al supermarket. Campeggia sui cartelloni pubblicitari al ritmo del calendario, ma il professionista e la lolita del banco accanto dispongono solo di un’occhiata fugace, fra il distratto e l’embè?, riprendendo subito a spippolare il cellulare sulle strisce pedonali col rosso. Sconfitta, allora? Il contrario, la Rivoluzione ha vinto. È diventata normale, ordinaria, routinaria, vissuto sociale, ethos plebeo, pane di massa. Allora le canne erano rivoluzionarie, oggi la rivoluzione la comperi con la paghetta di mammà nel localino fighetto del rapper che fa il ribelle alla televisione col canone.
La mostra di Reggio è la liturgia della sessantottinizzazione del mondo, l’album di famiglia per ricordare come siamo diventati quello che siamo. Siamo così abituati a esserlo, infatti, che non lo rammentiamo più. È il sesso, bellezza.
Cosa c’è di più intimo e bello e divino del sesso, non fosse altro perché la metafora scelta da Dio per comunicarci l’alleanza con la Chiesa è quella sponsale, è il Cantico dei Cantici? Per questo la Rivoluzione ha aggredito il sesso. È così da sempre, ma dagli anni 1960 la tecnologia ha finalmente dato realtà alla volontà di potenza del superuomo. Una pillolina semplice semplice per beffare la natura, scartarla di lato, lasciarsela alle spalle in maniera industriale, massificata. Il sol dell’avvenire era un’anticoncezionale. Una generazione intera che invece della sublimità divina di generare una vita strappa il fuoco agli dèi arrestando la vita. E dopo quella prima generazione, un’altra. E poi un’altra ancora, e così via. Un pernacchio a Dio dall’uomo in rivolta contro se stesso. La centrifuga di Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud che fu quello Stato nascente dal calderone in ebollizione delle streghe si capisce solo a partire dalla rivoluzione sessuale, non il contrario. Io al posto di Dio.
Una volta sgangherato il sesso, il piano inclinato ha fatto il proprio corso. L’utero è mio e il bambino dentro lo massacro io. L’aborto, una voragine che ha inghiottito sei milioni di italiani mai nati. In mezzo c’è stato il divorzio, il setting perfetto per questo scempio. Io sono mio e se il coniuge non ci sta, ci vediamo in tribunale. L’aborto è affare della madre, il padre al massimo è un fuco. Il sesso non c’entra con i figli. E così, mentre Emma Bonino eliminava bambini dal ventre delle madri con una pompa per biciclette, la società imparava dopo il sesso fai-da-te pure a sceglierei il sesso da sé. Sessualità a gusti come la pizza, a giorni alterni come il lavaggio delle strade, zigzagante, ubriaca, camaleontica, transtutto. Il sesso finalmente separato dal gender. Sei fatto in un certo modo, ma non è vero, Dio si è sbagliato. Al grido di “peggio per lui”, i Mario Mieli hanno sdoganato la pedofilia e oggi s’insegna che due papà è meglio di uno sin dalle scuole dell’infanzia.
Una guerra. A Reggio Emilia sono in mostra le armi e i residuati. Sua maestà la pillola anticoncezionale, il prototipo del vibratore, l’accumulatore orgonico con cui il sulfureo Wilhelm Reich credette d’immagazzinare l’energia dell’orgasmo, filmacci, giornalini e fumettastri porno con dovizia di particolari pecorecci che si ammantano di intellettualità, coiti hippy fra bandiere rosse, sex, and drugs and rock’n’roll, il femminismo. Un’orgia. Ma lo scandalo non sono immagini, oggetti e contesti, ché siamo troppo seri per prenderli sul serio e troppo lievi per trattarli con leggerezza. Lo scandalo è che tutto sia oramai abituale, persino burocratizzato, e che se provi a insegnare a tuo figlio un’alternativa sei un perverso.
Marco Respinti