di Assuntina Morresi da Avvenire del 04/10/2020
Nel Paese scandinavo aumentano i dubbi etici e scientifici sul cambio di sesso nei minorenni
In 10 anni le diagnosi di disforia di genere sono aumentate del 1.500 per cento Dopo vari scandali e denunce pubbliche stop alla legge che anticipava la chirurgia
È stata bloccata la legge proposta nel-l’estate del 2018 dal governo social democratico svedese, che voleva abbassare da 18 a 15 anni l’età minima per accedere alla chirurgia per la transizione di genere senza il consenso dei genitori, e che voleva stabilire a 12 quella per poter cambiare legalmente il proprio genere. Le polemiche erano nate subito dall’interno della comunità scientifica, innescate da un articolo del quotidiano ‘Svenska Dagbladet’ dove il prof. Christopher Gilliberg, docente e psichiatra alla Gothenburg’s Sahlgrenska Academy, aveva dichiarato che il trattamento ormonale e chirurgico nei confronti dei minori con disforia di genere era un “grande esperimento” che rischiava di diventare uno dei peggiori scandali della medicina nazionale, mancando completamente di base scientifica e spesso anche di revisione etica.
Ma ad avere un ruolo determinante nell’opinione pubblica svedese è stato un programma di giornalismo investigativo della TV pubblica svedese, ‘Uppdrag granskning’, traducibile con ‘Missione: indagare’. Karin Mattison e Carolina Jemsby hanno curato un’inchiesta andata in onda in due puntate, la prima il 3 aprile e la seconda il 14 dicembre 2019: “The Trans Train”, il titolo, tratto dalle parole di Anne Waehre, dell’Oslo University Hospital, specialista dei trattamenti della transizione di genere nei teenagers norvegesi: «Una volta arrivati qui, sono già nel trans train, per così dire. Una volta che inizi con il testosterone resti paziente per tutta la vita». Anne Waehre è una dei diversi esperti chiamati a commentare quello che l’inchiesta definisce «un nuovo gruppo di pazienti», un fenomeno recente emerso in Svezia, Norvegia, Finlandia, Gran Bretagna, ma anche in tanti paesi occidentali, indicato da un acronimo, RODG, che sta per Rapid On-set Gender Dysphoria: l’aumento repentino e esponenziale di minori, soprattutto ragazze, con diagnosi di disforia di genere.
Il Consiglio Nazionale della Sanità ed il Benessere ha confermato che fra il 2008 e il 2018 la diagnosi di disforia di genere è aumentata del 1.500 per cento nella fascia di età fra i 13 e i 17 anni. Minori che vengono indirizzati verso le cosiddette terapie “gender affirming”, cioè percorsi di transizione verso il genere che si percepisce come proprio, diverso da quello della nascita. Sono percorsi che iniziano con la somministrazione di ormoni che bloccano la pubertà, mediamente per circa tre anni, e poi continuano con gli ormoni cross-sex, per esempio testosterone per le donne che vogliono transitare al maschile, e con la chirurgia.
Le due puntate, di un’ora ciascuna, sono disponibili in rete, in lingua svedese e sottotitolate in inglese, e meritano di essere viste per intero perché aprono uno squarcio onesto su una tematica molto delicata, con un approccio interessante, post-ideologico, tipico dei paesi di cui la Svezia è pioniera, cioè quelli in cui la rivoluzione antropologica e la scristianizzazione sono andate di pari passo, spazzando via qualsiasi battaglia anche residuale sui cosiddetti valori non negoziabili. L’inchiesta non si riferisce quindi a un quadro valoriale, non si mettono in dubbio i percorsi “gender affirming” per le transizioni di genere, né tantomeno si discute di orientamenti sessuali o famiglie arcobaleno, per intenderci: si pone piuttosto un problema di malasanità, sollevato dalla proposta governativa dell’abbassamento dell’età per l’accesso ai trattamenti di transizione. In altre parole: essendo ormai accettato il nuovo assetto antropologico e non essendoci più nessuno che lo contesti, non c’è neppure una sua difesa ideologica, e quindi si può anche entrare nel merito di certe procedure, criticandole anche duramente.
E la domanda è: siamo sicuri che ormoni e chirurgia siano indicazioni valide per rispondere a tutte queste nuove diagnosi di disforia di genere? Perché un così grande aumento di giovanissimi pazienti, negli ultimi dieci anni? E perché una così grande prevalenza di persone nate femmine? L’inchiesta cerca di rispondere con interviste a tutto campo ai protagonisti, cioè specialisti e studiosi di settore, genitori di minori che si sono sottoposti alla transizione, e soprattutto chi la transizione l’ha affrontata, con diver- se esperienze: Johanna, che voleva farla ma poi ha cambiato idea; Aleksa, che la transizione l’ha fatta diventando nota attivista dei diritti dei transgender, ma con un successivo ripensamento pubblico, e Sametti e Mika, due detransitioners, cioè due ragazze che sono “tornate indietro” rispetto al percorso iniziato, cercando di recuperare l’originale identità femminile. Un “tornare indietro” impossibile, però, e questo è il punto: il percorso è tragicamente irreversibile. Una volta saliti sul treno della transizione non si può più scendere, e se ci si rende conto di aver fatto una scelta sbagliata, non c’è più niente da fare. La voce resta profonda, maschile, il seno non ricresce, la forma del viso è irrimediabilmente mascolinizzata, e per sempre si dovrà restare nel nuovo corpo, che non è quello che si era immaginato, e soprattutto non è la soluzione dei tanti, pesanti problemi che si pensava di poter superare trasformando con farmaci e chirurgia un corpo che si pensava sbagliato, ma che sbagliato non era.
Tutte giovanissime, con storie e atteggiamenti differenti. “Mika” è il nome fittizio di una ragazza svedese le cui dichiarazioni, sconvolgenti, sono state montate come introduzione della prima puntata. È ripresa di spalle, in una stanza buia, non vuole mostrare il volto perché ha paura delle reazioni che potrebbe suscitare nella comunità transgender, nei cui confronti ha parole molto dure, come anche verso il sistema sanitario: «Essere una cavia, questo è… Il sistema sanitario non ha la più pallida idea, non c’è nessuna scienza che lo sostenga, stanno facendo un esperimento su giovani con ancora tutta la vita davanti. Sono arrabbiata, penso sia incredibilmente irresponsabile ». Sametti invece non ha paura a farsi riprendere e se la prende solo con sé stessa. Quando mostra alla giornalista le foto di come era prima, dice di essersi sempre vista brutta ma adesso, che è totalmente cambiata e ha perso per sempre le fattezze della bella ragazza che era, non capisce perché mai lo pensasse, e non si capacita di quel che ha fatto. Le piace ancora cantare, ma la voce di prima non torna più.
Johanna invece era ansiosa di iniziare il percorso. Uscire dall’anoressia non l’aveva resa felice, e aveva stabilito che la transizione fosse l’ultima possibilità di risolvere i suoi problemi: se non ci fosse riuscita si sarebbe uccisa, afferma con raggelante chiarezza al microfono della giornalista. Ma durante la lunga attesa ha incontrato uno psicologo: le ha suggerito che forse il desiderio della transizione era il residuo di un antico problema di accettazione del suo corpo, rimasto anche dopo la guarigione dalla anoressia. La disforia di genere come effetto, insomma, e non causa delle sue pesanti difficoltà. “Un’illuminazione”, ricorda Johanna, che di transizione non parla più. Dei genitori dei minori non si vede il volto, ma solo le sagome, perché le riprese sono al buio. Sono timorosi, e si sentono impotenti di fronte a quel sistema sanitario che incoraggia i propri figli, così fragili e ancora minorenni, verso la transizione, anziché suggerire altre strade. Poco più che bambini, come possono rendersi conto delle conseguenze di salire su quel treno, che non prevede un biglietto di ritorno?
Gli specialisti intervistati ammettono di non dire mai di no, di non rifiutare una richiesta di transizione. E i genitori che si oppongono alla valutazione iniziale vengono segnalati ai servizi sociali, che poi possono consentire ai ragazzini di continuare senza il consenso di mamma e papà. Non è scritto così nel sito del Karolinska Institutet ma, incalzati dalle domande dei giornalisti, i professionisti ammettono che anche questo accade. Così come riconoscono, a fatica, che la valutazione a volte non dura sei mesi, come dichiarato ufficialmente, ma può anche limitarsi a poche settimane, quando il caso “è chiaro”.
(1 – continua)
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