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I misteri salvifici di san Vitale a Ravenna

16 Marzo 2019 - Autore: Michele Brambilla

di Michele Brambilla

La basilica di San Vitale a Ravenna, fatta edificare dall’imperatore Giustiniano (527-565) dopo aver riconquistato la città dai barbari di stirpe germanica nel 540, attira visitatori da tutto il mondo per lo splendido ciclo di mosaici bizantini che riveste il presbiterio e la parte absidale. Il tempo liturgico della Quaresima focalizza lo sguardo sulla parete che, in un’unica lunetta, narra gli avvenimenti principali della vita del patriarca Abramo.

Il capostipite degli Ebrei, “padre della Fede”, è infatti una figura centrale della riflessione quaresimale. Basti pensare al fatto che, nel rito ambrosiano, la III domenica di Quaresima è chiamata proprio Dominica de Abraham. Il rito romano si sofferma sul patriarca sia nella II sia nella III domenica all’interno del ciclo A del Lezionario. Abramo è emblema della fede fiduciale, ovvero dell’affidarsi del credente a Dio per lasciarsi conformare a Cristo; suo figlio Isacco, che si consegna con serenità al sacrificio allestito dal padre, è tupos (prefigurazione) dello stesso Gesù crocifisso, motivo per cui l’episodio è immancabilmente inserito tra le letture della Veglia pasquale.

La lunetta di San Vitale mostra, nell’ordine, Abramo che offre del cibo ai tre misteriosi visitatori che gli hanno appena annunciato la nascita di un figlio e, sul lato destro, il sacrificio di Isacco. I mosaici possiedono una vivacità di movimenti e di colori che l’arte bizantina dimenticherà nei secoli successivi al VI, ma comprendono anche alcuni elementi che diverranno canonici sia in Oriente sia in Occidente. Per esempio la rappresentazione dei tre Angeli così come appaiono nell’episodio delle querce di Mamre (cfr. Gn 18,1-22) rimarrà fino al Rinascimento l’unica forma ammessa di rappresentazione della SS. Trinità: tre uomini in bianche vesti, identici, ma con aureole colorate differentemente per distinguere nell’unica sostanza divina le Persone di Padre, Figlio e Spirito Santo.

Abramo è appena fuori dalla sua tenda, dalla quale si affaccia Sara. Il sorriso di incredulità di Sara darà il nome a Isacco (“figlio del sorriso”): ammonisce ad avere sempre fiducia nella Provvidenza di Dio per identificarne i segni e riceverne i doni spirituali. Il gesto di offerta di Abramo ha il medesimo valore che ha l’offertorio della Messa: prendere qualcosa di prodotto dall’uomo (pane e vino) ed elevarlo al piano divino. La SS. Trinità si siede a tavola con la stessa solennità con la quale è assisa sul trono celeste. L’Eucaristia è un invito al banchetto di nozze del Re, che nella Pasqua storica e in quella quotidiana sacramentale dona in cambio la vita eterna.

Nella scena del sacrificio, Isacco è posto su un altare-piedistallo, come le statue antiche: Cristo, di cui è prefigurazione, è l’unico vero Dio degno di culto. Abramo ha già il coltello sguainato per colpire il figlio, ma scorge tra le nuvole rosate la mano di Dio che lo ferma. L’agnello ai piedi di Abramo ricorda sia la vittima sacrificale che poi sostituisce materialmente Isacco, sia l’Agnello per eccellenza, che scende Egli stesso sulla Terra per aprire, nel proprio sangue, la via della salvezza. «Questa vittima è l’Agnello prefigurato dalla legge antica; non è scelto dal gregge, ma inviato dal cielo. Al pascolo nessuno lo guida, poiché Lui stesso è il Pastore. Con la morte e la risurrezione alle pecore tutto si è donato perché l’umiliazione di un Dio ci insegnasse la mitezza di cuore e la glorificazione di un uomo ci offrisse una grande speranza» (Preconio pasquale ambrosiano).

Sabato, 16 marzo 2019

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