Card. Carlo Caffarra, Cristianità n. 416 (2022)
Relazione del futuro cardinale Carlo Caffarra (1938-2017) al simposio internazionale sul tema Etica e teologia di fronte alla crisi contemporanea, svoltosi a Pamplona, in Spagna, presso l’Università di Navarra, diretta dall’Opus Dei, nell’aprile del 1979. Don Carlo era allora docente della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. Il testo è apparso in Studi Cattolici, anno XXIII, n. 220, Milano giugno 1979, pp. 345-351; qui viene ripreso con aggiornamento, integrazione e normalizzazione dell’apparato critico. Le aggiunte redazionali sono fra parentesi quadre.
Fra le contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo una è particolarmente evidente e degna di attenzione. Da una parte, infatti, con e dopo la Rivoluzione americana assistiamo a una lunga serie di dichiarazioni di diritti dell’uomo. Dall’altra, siamo sempre più consapevoli che raramente, nella storia dell’umanità, l’uomo è stato vulnerato tanto profondamente nella sua dignità personale. Il fatto di questa contraddizione offre materia di riflessione anche alla teologia e, in particolare, alla teologia morale (1).
Volendo meglio precisare i due fatti in contraddizione, si deve innanzitutto cogliere il significato del primo.
Alla base delle varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo [(2)] si ha un duplice atteggiamento spirituale, uno negativo o polemico, e uno positivo o propositivo. Negativo: si intende uscire da una situazione sociale e politica antecedente — alla dichiarazione — giudicata disumana e disumanizzante in quanto ritenuta di ostacolo alla piena realizzazione della persona umana. Positivo: si intende, di conseguenza, progettare un edificio sociale nel quale il rispetto e la promozione di ogni uomo siano effettivamente realizzati. In sostanza, la dichiarazione dei diritti ha il significato e la portata di un criterio veritativo e valutativo, mediante il quale si opera un discernimento storico fra società e società, politica e politica, economia ed economia e così via. E, nello stesso tempo, ha il significato e la portata di una fondamentale indicazione del cammino da percorrere. È, insomma, la presa di coscienza che l’uomo compie della sua dignità.
Si deve tuttavia notare subito — cominciando a precisare anche il secondo termine della contraddizione — che si tratta di una presa di coscienza dominata da una intenzione pratica. Di una presa di coscienza, cioè, che induce la persona a opporsi, concretamente, a ciò che la ferisce nella sua dignità e a impegnarsi, concretamente, per ciò che la promuove. Di conseguenza, il problema politico — inteso come ricerca di una strumentazione adatta per cambiare e organizzare il sociale — diventa sempre più il problema centrale per l’uomo contemporaneo.
Ed è precisamente in questo ambito che scoppia la contraddizione da cui ha preso avvio la nostra riflessione. Infatti, l’individuazione e la messa in opera di una prassi liberatrice dell’uomo, di fatto, ha avuto come esito, non raramente, un asservimento dell’uomo quale questi raramente ha conosciuto nella sua storia.
Si è avuto un capovolgimento delle intenzioni nell’àmbito dei risultati storicamente ottenuti. Alcuni accenni saranno, per il momento, sufficienti per esemplificare questo capovolgimento: il Lager nazionalsocialista e [il GuLag] sovietico, la schiavitù della persona ai beni di consumo nelle società altamente industrializzate, l’emergere di forme di puro spontaneismo e irrazionalismo contro un progetto di piena razionalizzazione.
Quale spiegazione dare di questo esito spesso tragico dell’impegno dell’uomo per il progresso sociale? Quale soluzione la teologia ha da offrire a questo mondo così grande nelle sue aspirazioni e così tragico nelle sue realizzazioni? Sono queste le due domande a cui cercherò di dare una risposta: una risposta da cui la teologia, come tale, non può esimersi, se non vuole tradire la sua missione. «Come tale», ho detto: essa nella ricerca della risposta non deve rinunciare al suo statuto epistemologico di «sapere della fede» (intellectus fidei) per divenire una succursale della sociologia, della psicologia o altro ancora.
La domanda radicale a cui cercheremo di dare una risposta in questa prima parte della nostra esposizione è la seguente: l’esito, così contraddittorio, dell’impegno dell’uomo per il progresso sociale, per la produzione cioè di un sociale veramente umanizzante, è dovuto solamente al cattivo funzionamento di forze in sé stesse buone, cioè capaci di raggiungere lo scopo, oppure è dovuto al fatto che queste forze sono, per loro natura stessa, incapaci di raggiungerlo?
Se è vera la prima ipotesi, si tratterebbe di un cattivo funzionamento di forze non bene usate, di una incapacità congiunturale; se è vera la seconda ipotesi, si tratterebbe di una impossibilità strutturale che può essere superata solo mediante l’ingresso nella storia umana di un quid novi non deducibile in alcuna maniera dalla storia umana. Il problema sta tutto in questi termini, credo.
La produzione di un sociale che realizzi in pienezza la umanità dell’uomo — perché questo è, in fondo, il disegno perseguito — esige e presuppone nella persona umana la volontà di operare conformemente a un complesso di valori ultimamente riconducibili al valore etico della giustizia. In fondo, l’identificazione di progresso sociale e realizzazione di una società giusta è un topos costante nella cultura contemporanea. Nonostante dunque le apparenze, da questo punto di vista, moralità e progresso sociale si richiamano a vicenda anche per l’uomo contemporaneo. Ma a quali condizioni è possibile realizzare in concreto una società giusta? Di quali strumenti è in possesso la persona umana in ordine a questa realizzazione?
Il primo strumento a cui essa si è affidata in questa opera è stata la produzione di norme giuridiche, sia nel campo del diritto pubblico sia nel campo del diritto privato, che nel loro insieme sistematico costituiscono l’ordinamento giuridico della società, cioè la regolamentazione, conforme a giustizia, dei rapporti sociali (3). La cosa, peraltro, era già talmente radicata nella coscienza umana che, anche dal punto di vista linguistico, giustizia e ordinamento giuridico usano lo stesso vocabolario.
Ma il ricorso a questo strumento, dati i presupposti che ne giustificavano l’uso, si è dimostrato intrinsecamente ambiguo e alla fine si è rivoltato contro le intenzioni di chi vi era ricorso.
Quali erano questi presupposti? Essi mi sembrano fondamentalmente tre.
Il primo è costituito dalla separazione della politica e del diritto dalla morale (4); il secondo, conseguenza del primo, dalla definizione, non solo teorica ma poi messa in pratica, della politica non più come «prassi», ma come «tecnica» produttiva di un corretto ordinamento del sociale (5); il terzo, conseguenza del secondo, dalla convinzione di poter costruire una vera e propria scienza politica, sul modello delle scienze della natura (6).
Sulla base di questi presupposti, a quali conseguenze si arriva? La prima e più importante mi sembra il cambiamento sostanziale del concetto di giustizia. Essa consiste, oggettivamente, nell’ordinamento giuridico prodotto dal potere e soggettivamente nel non violare le leggi stabilite. In ultima analisi: dal punto di vista oggettivo, la giustizia consiste nella delimitazione di un ambito neutrale di arbitrio personale entro cui ogni cittadino, in quanto privato, può perseguire massimamente il proprio utile; dal punto di vista soggettivo, essa connota la volontà di non impedire all’altro l’esercizio del suo arbitrio entro quell’ambito. La seconda è la coerente concezione del potere politico come potestà coattiva, più che come servizio al bene comune. Infatti, se il diritto consiste nel delimitare sfere di azione di arbitrio personale, la delimitazione dovrà essere imposta esternamente.
A questo punto si può già cogliere l’ambiguità di cui si parlava. La produzione di una società giusta, in questo contesto, di fatto coincide o con il massimo di libertà individuale e il minimo di regolamentazione giuridica: e in questo caso, inevitabilmente, si avrà di fatto un crescere della disuguaglianza e quindi la pratica impossibilità per molti di raggiungere la pienezza della loro vita personale. O coincide con il massimo di regolamentazione giuridica, di organizzazione sociale: e in questo caso si ha il rischio permanente di una radicale spersonalizzazione del singolo, ridotto a oggetto da amministrare (7).
La presa di coscienza della insufficienza della sola organizzazione giuridica e sociale per realizzare un vero progresso sociale determina la presa di coscienza della necessità di un cambiamento della società stessa come tale. Non di un cambiamento qualsiasi, ma di un cambiamento radicale e totale: di una rivoluzione. E così, la rivoluzione è ritenuta spesso come l’unico strumento che possa realizzare un vero progresso sociale.
Un’analisi storica e concettuale dell’idea di rivoluzione esigerebbe molto più tempo di quanto ne abbiamo a disposizione. Dobbiamo perciò accontentarci di alcuni accenni essenziali che ci sembrano più direttamente pertinenti alla nostra questione. Essenzialmente chi dice «rivoluzione» dice «passaggio», senza nessuna continuità, da uno stato di necessità a uno stato di libertà o di animalità a uno stato di umanità. Passaggio, dunque, che implica una frattura radicale con la storia finora trascorsa e che ha come esito un novum absolutum.
Ne conseguono due corollari inevitabili: la nobilitazione della violenza e la liquidazione pura e semplice dell’etica. La nobilitazione della violenza: mentre questa, fuori del pensiero rivoluzionario, è al massimo ritenuta in alcune circostanze una triste necessità, nel pensiero rivoluzionario essa viene considerata ciò che consente all’uomo di divenire pienamente se stesso (8). La liquidazione dell’etica: i valori etici — libertà, giustizia — non sono che legittimazioni-mistificazioni dell’ordine esistente. Il bene è il frutto della rivoluzione e il male è ciò che la rivoluzione vuole distruggere. Anzi, più che di bene e di male si deve parlare di violenza che conserva — l’ordine esistente — e di violenza che libera. Ma è proprio a questo punto che sorge il problema più drammatico posto dal pensiero rivoluzionario: esso è capace di superare il momento violento e nichilistico dei valori finora considerati supremi oppure è costretto a finire dentro questo momento? (9). Se fosse vera questa seconda ipotesi, il risultato non potrebbe essere altro che il totalitarismo, ossia la violenza rivoluzionaria istituzionalizzata: il massimo, finora conosciuto, dell’oppressione dell’uomo.
Necessità logica e verifica storica ci convincono a ritenere che esattamente questa è la fine del pensiero rivoluzionario. Infatti, l’idea e la prassi rivoluzionaria comportano, come già abbiamo accennato, l’unità di due momenti, il negativo — come distruzione dei valori etici finora ritenuti validi — e il positivo — come creazione di un ordine umano nuovo. Non solo, ma questi due momenti devono essere inscindibili. Qualora infatti si scindessero e al primo non seguisse il secondo, l’idea e la prassi rivoluzionaria finirebbero con l’essere nulla più che la pura negatività del potere: oppressione massima a causa della distruzione di ogni unità ideale, assorbimento pieno del consenso nella coercizione. L’esito non può non essere questo. Infatti, l’idea e la prassi rivoluzionaria, per sua stessa natura, si sono tagliate la possibilità di ogni verità che non sia puramente e semplicemente un «tener-per-vero». Partendo dalla convinzione della inesistenza di un ordine intelligibile del mondo, negando cioè ogni intelligibilità e razionalità intrinseca al reale, di fatto l’azione rivoluzionaria consisterà nel puro esercizio di un potere, il potere di istituire — ex integro — ogni verità e ogni valore (10). Platone [428/427-348/347 a.C.], descrivendo la vittoria di Socrate [470-399 a.C.] su Callicle nel Gorgia, aveva già pienamente percepito le radici di questa problematica [(11)].
La creazione politica di una società giusta, l’offerta all’uomo di una società nella quale veramente sia possibile a ogni persona umana di realizzarsi pienamente, risulta così essere impossibile fino a quando l’uomo si affida unicamente a strumenti politici. Non che non sia possibile raggiungere alcuni risultati particolari. Ciò che resta oltre è la realizzazione del bene umano in quanto tale, nella sua integralità.
Ed è a questo momento che deve intervenire l’interpretazione propriamente teologica di questa situazione.
Che cosa sta veramente alla radice di questa situazione così drammatica, alla radice della infelicità così profonda della coscienza contemporanea? In una pagina di rara finezza spirituale, sant’Agostino [354-430] parla di «una specie di matrimonio — nell’uomo — fra la ragione contemplativa e la ragione attiva, con l’attribuzione a ciascuna di funzioni diverse, ma senza compromettere l’unità dello spirito» (12). La radice del dramma contemporaneo sta nel divorzio che ha spezzato il vincolo di questo rationale connubium fra contemplazione, o sapienza, e azione, o scienza.
Che cosa si intende dire? Nel linguaggio agostiniano si tratta dell’unificazione fondamentale dell’essere umano in forza della quale «[…] quanto facciamo razionalmente nell’uso dei beni temporali, lo facciamo senza cessare di contemplare i beni eterni da conseguire, passando attraverso quelli, unendoci a questi» (13). Per cui, sempre nel linguaggio agostiniano, la radice della disintegrazione dell’uomo consiste «[…] ponendo il nostro fine in questi beni e deviando su di essi il nostro appetito di felicità» (14).
Tentando ora di tradurre questa analisi nel nostro linguaggio, penso che si debba dire: la radice ultima del dramma contemporaneo è di avere ridotto la ragione umana a pura ragione strumentale. Che cosa significa «ragione strumentale»? L’espressione ha un significato materiale: la ragione ha per oggetto solo l’organizzazione dei dati empirici — l’usus temporalium rerum — e non può pronunciarsi sui fini, perché posti fuori del suo campo intenzionale. Ha un significato formale: il criterio veritativo e valutativo è il risultato, l’utilità. Cioè la ragione dell’uomo è stata decapitata in quanto è stata imprigionata dentro alla gabbia dell’immanenza. Quali sono le conseguenze e le radici di questa decapitazione?
La conseguenza primaria è il rifiuto puro e semplice della morale. Si noti, non si tratta di contrapporre moralità e immoralità sul piano del comportamento, affermando il rifiuto pratico della prima e la caduta nella seconda. La cosa è più grave: è il giudizio di non-significanza del discorso sul dover-essere perché la ragione è stata privata della possibilità di elaborare il giudizio etico. Né poteva essere diversamente. Infatti, se la ragione si limita a organizzare dei dati secondo il criterio dell’utilità, per ciò stesso essa non è più in grado di individuare ciò in rapporto a cui l’utilità si definisce e acquista significato. Non è più in grado di riconoscere ciò che per sua natura è fine, non mezzo, e quindi meritevole di un rispetto non relativo, condizionato, penultimo, ma assoluto, incondizionato e ultimo. Su questa base, l’organizzazione del sociale in vista del progresso o assumerà il volto di una razionalizzazione delle energie in vista della produzione di una massa sempre maggiore di beni utili da consumare oppure assumerà il volto di un’organizzazione e produzione di un tutto, entro cui il singolo è solo momento, strumento. E l’esito finale sarà o la putrefazione permissivistica o il GuLag totalitario. Uno dei segni di questo oscuramento generale, fra i più inequivocabili, è il massiccio ingresso negli Stati, senza differenziazioni ideologiche, della liberalizzazione dell’aborto.
La radice ultima di questo oscuramento era già stata individuata da Agostino nel passo citato. Essa consiste in una detorquatio voluntatis in forza della quale si pone il bene ultimo dell’uomo dentro il mondo, nella storia, in rebus creatis. È allora il peccato la vera malattia mortale dell’uomo contemporaneo, il peccato messo alla base della costruzione della (pseudo-)civiltà.
La risposta teologica alla domanda da cui siamo partiti si è ormai completamente costruita. Non si tratta di un disordine congiunturale, correggibile con opportune modifiche. Si tratta di una crisi strutturale, nel senso più profondo del termine. Di una crisi, cioè, che ha la sua radice ultima nel cuore della persona umana: nel peccato, nella decisione di non fondarsi più su Dio, di tenere, direbbe san Paolo, schiava la verità nella ingiustizia (cfr. Rm 1,18). Il che è l’essenza stessa del paganesimo (15).
La soluzione
Questo secondo momento della nostra riflessione è strettamente connesso con quello precedente, come la terapia dipende dalla diagnosi.
Che il progresso sociale debba essere ispirato e governato da valori etici, più sinteticamente dal rispetto della dignità della persona umana, a parole è ammesso da tutti. Il problema è dunque più profondo. Si tratta di individuare il modo con cui questa ammissione unanime può divenire realmente l’ispirazione, la legge e la forma del progresso sociale.
Volendo seguire, anche in questo momento della nostra riflessione, un cammino ascendente, anche se più faticoso, comincerò con il dire che la prima scelta che si impone è la ricostituzione, nel linguaggio agostiniano, del rationale coniugium fra sapienza, o contemplazione, e scienza, o azione. Si tratta, in altre parole, di riconoscere e di ridare alla ragione umana la sua capacità costitutiva di trascendere l’ente verso l’Essere. Perché solo una ragione così guarita dalla sua ferita più mortale può ridiventare capace di fondare un ordine morale e di giustificarlo: solo una ragione capace di operare il passaggio — non il salto — del trascendere ab ente ad Esse, a Dio. Il tentativo kantiano di fondare un’etica dopo la negazione della possibilità di una metafisica dell’essere si è rivelato, contro le intenzioni dell’autore, della stessa serietà, come aveva già annotato acutamente [il filosofo danese] Søren Aabye Kierkegaard [1813-1855], dei colpi che da solo si dava Sancho Panza [(16)]. A mio parere, il cammino della redenzione non potrà neppure essere cominciato dall’uomo di oggi se non ricupera la possibilità di un sapere dell’Assoluto che non sia la costruzione di un sapere assoluto.
Ma, come già avvertiva Agostino, la guarigione della ragione presuppone, come condizione indispensabile, un atto di libertà, il più decisivo per l’uomo. Un atto supremo di libertà mediante il quale l’uomo decide di non arrestarsi al mondo dell’ente, delle creature, di non porre in esse il porto ultimo del suo temporale peregrinare, ma di fondarsi sull’ultimo Fondamento. Esige dunque disponibilità totale a questo Fondamento ultimo, oltre il mondo e la storia. Ed è solo questa disponibilità che rende ancora possibile un giudizio critico sulle umane realizzazioni, un camminare dentro il tempo verso l’Eternità (17). E l’etica, o ritorna a essere ciò che è sempre stata chiamata a essere, l’indicazione di questo cammino in un territorio inaridito dal vento sferzante delle varie proposte immanentistiche, o è un discorso privo ormai di ogni significato (18).
Si tratta allora di guarire la ragione guarendo il «cuore», facendo uscire l’uomo dalla decisione di fondarsi su sé stesso, di incentrarsi in sé stesso, di finalizzarsi a sé stesso. In una parola: di perdersi per ritrovarsi. Ma proprio a questo punto sorge la domanda veramente e ultimamente decisiva: come accettare che solo perdendosi ci si ritrova, che solo superandosi si è sé stessi?
Precisamente dentro questo contesto si colloca l’annuncio cristiano nella sua sostanza, la confessio fidei della Chiesa nel Verbo incarnato, Gesù il Cristo. Come, intatti, ha definitivamente insegnato il Concilio di Calcedonia [451], nel mistero dell’Incarnazione non solo non viene mai distrutta la differenza delle nature a causa della loro unione, ma anzi, in forza di essa, essa è stata conservata e salvata (19). Dunque, Dio si rivela nel suo Mistero più profondo nell’evento della assunzione della natura umana che lo porta alla morte in Croce (20), si rivela come amore puro e gratuito per l’uomo — «propter nos homines et propter nostram salutem» — e l’umanità dell’uomo appare finalmente in tutta la sua luce e dignità originaria nel suo essere assunta dal Verbo. Si ha qui il vero nucleo dell’annuncio cristiano su Dio e sull’uomo e sui loro rapporti. L’umanità di Cristo è l’umanità nella sua piena verità non nonostante l’Incarnazione, ma anzi proprio perché è l’umanità del Verbo di Dio.
Ne consegue che l’uomo, ogni uomo, raggiunge la pienezza della sua verità nella misura in cui partecipa dell’essere proprio del Cristo dal momento che è Cristo, Verbo Incarnato, la verità dell’uomo. Cristo, pertanto, è anche il dover essere dell’uomo — è il Comandamento di Dio — pienamente realizzato — in Lui — e da realizzarsi quotidianamente e storicamente da ciascuno di noi (21).
Ne consegue ancora che la liberazione dell’uomo, nel suo profondo, consiste nella comunione con Dio in Cristo mediante il dono dello Spirito Santo che infonde nel giustificato le virtù teologali, mediante le quali la persona può attuarsi in un rapporto diretto con Dio e raggiunge la pienezza della sua verità (22). Questa radicale guarigione ed elevazione della persona, nella sua interiorità, si espande nella guarigione ed elevazione della persona in quanto essere che vive nel tempo e nel mondo, in società con altre persone (23).
In un testo estremamente denso, san Tommaso scrive: «Iustitia est quaedam rectitudo ut mens hominis esset sub Deo, et inferiores vires sub mente, et corpus sub anima, et omnia exteriora sub homine» (24). Si realizza, cioè, nella salvezza dataci da Cristo, quella destinazione di tutte le cose all’uomo — «omnia exteriora sub homine» — come a loro fine, in quanto questi, profondamente unificato in sé stesso, si fonda su Dio — «mens hominis sub Deo». In altre parole: il rapporto dell’uomo con Dio donatoci in Cristo mediante il suo Spirito, ispira e governa la costruzione dell’uomo, sia personalmente sia socialmente, dentro il tempo, nella storia.
Si ristabilisce il rationale coniugium fra sapienza o contemplazione e scienza o azione, in quanto la costruzione del sociale è governata e ispirata dal nostro essere in Cristo ordinati a Dio e, d’altra parte, il nostro essere ordinati a Dio in Cristo, non togliendosi dal decursus temporis (25), esige che percorriamo rettamente quella longior via propria dell’uomo spirito incarnato (26), in cammino verso la Patria della sua perfetta identità.
Dentro questo contesto cristocentrico si apre la riflessione specificamente etico-sociale, che non è qui il caso di ripetere. Si deve solo sottolineare il fatto che in Cristo si esce dalla «lettera» delle dichiarazioni sulla dignità dell’uomo per acquisirne lo «spirito» (27). Esse diventano legge interiore dell’uomo contemporaneo, come una sorta di istinto spirituale che lo guida a discernere e a realizzare ciò che in una data circostanza concorre veramente alla dignità dell’uomo (28).
Conclusione
Mi era stato chiesto di parlare del rapporto fra ordine etico e progresso sociale. Il rapporto mi si è presentato subito, nella società contemporanea, come fortemente problematizzato da una contraddizione incontestabile: da una parte solenni dichiarazioni di principio, dall’altra la realtà dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. La «lettera» delle dichiarazioni non è lo «spirito» delle istituzioni e degli uomini. Come uscire da questa situazione, come superare questa spaccatura? Sono profondamente convinto che nella Chiesa debba finire, e credo stia finendo, grazie a Dio, l’illusione di certi cristiani e teologi di cercare la risposta teorica e pratica proprio in quelle visioni e prassi che sono precisamente all’origine di quella scissione, l’ideologia borghese e l’ideologia marxista. Essi dimostrano con ciò la stessa sapienza di chi per spegnere un fuoco vi butta sopra benzina.
Si tratta, al contrario, dopo una necessaria e non più prorogabile guarigione della ragione, di prendere coscienza che la verità dell’uomo è Cristo, Figlio di Dio fatto uomo; prendere coscienza che il Vangelo è la verità, la verità su Dio, sull’uomo e sul mondo. Si tratta, in conseguenza, di vivere e fare questa verità sulla base di una intensa vita teologale, così che, cristiani nel senso più profondo del termine, i credenti entrano nel sociale, resi capaci anche da una corretta strumentazione razionale, di produrre un sociale di vero progresso, cioè veramente per l’uomo, per l’uomo come ci è rivelato e donato nel e dal Cristo, fine ultimo di tutta la creazione (29). Vi sono allora compiti essenziali, urgenti e prioritari: un nuovo impegno per la ragione — compito di costruire una solida filosofia —, la ricostruzione di un’etica sociale cristiana, come capitolo dell’etica teologica, e infine, ma non dammeno, la formazione di politici, economisti, sindacalisti ecc. veramente cristiani, perché sappiano, all’interno delle varie e sempre cangianti situazioni storiche, elaborare princìpi di riflessione, norme di giudizio, direttive d’azioni coerenti con la loro esperienza di fede.
Card. Carlo Caffarra
Note:
1) Il fatto era già stato richiamato nella costituzione apostolica Gaudium et spes (cfr. n. 4 e n. 9) [del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965)], e ora in [san Giovanni Paolo II (1978-2005),] Lettera enciclica «Redemptor hominis» all’inizio del ministero pontificale [del 4-3-1979], n. 5.
2) [Le più note dichiarazioni dei diritti dell’uomo sono quella nord-americana del 1776, quella della Rivoluzione francese del 1789 e quella dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1948.]
3) Storicamente risulta che le prime rivoluzioni moderne furono rivoluzioni essenzialmente politiche. Esse tendevano a un diverso modo di organizzare politicamente la società civile, secondo un modello di giustizia fondamentalmente «garantista» dei diritti del singolo.
4) È questo un fatto storico decisivo per tutta la nostra problematica. Esso consiste essenzialmente nella convinzione che l’agire politico dell’uomo non sia regolabile dalla legge morale: è eticamente neutro. Ciò comportava necessariamente che il bonum civitatis (il bonum commune) non fosse più un bonum humanum — sia pure particolare e non ultimo. La politica, in sostanza, cessava di essere scienza del «giusto comune» e diveniva una scienza della regolamentazione del sociale per l’utile.
5) Su questo cambiamento hanno giustamente richiamato l’attenzione sia H[annah] Arendt [1906-1975], Vita activa, trad. it., Bompiani, Milano 1964, e H[ans] G[eorg] Gadamer [1900-2002], Verità e metodo, trad. it., Fabbri, Milano 1972. Non essendo più nell’ambito della morale, la politica entra nell’ambito dell’agire umano che non ha per fine il perfezionamento della persona umana come tale, ma la trasformazione di una materia — in questo caso i rapporti sociali. Si ricordi la distinzione, centrale nell’etica tomistica, fra prudentia e ars corrispondente alla distinzione fra agibilia e factibilia.
6) Ciò viene consequenzialmente ritenuto possibile in ragione dei due presupposti precedenti. Il comportamento degli uomini viene preso in considerazione come «materia» della costruzione politica e, pertanto, tende a divenire, la politica, una sorta di ingegneria sociale tesa alla costruzione di condizioni nelle quali gli uomini saranno costretti a comportamenti calcolabili già in antecedenza. Molto significativo quanto scrive al riguardo [Thomas] Hobbes [1578-1679] al cap. XXIX del Leviatano: «Quando essi si dissolvono [gli Stati] […] la colpa non è degli uomini, in quanto sono la materia, ma in quanto sono i fattori e gli ordinatori di essa» (cit. dalla trad. it,. Laterza, Bari 1911, vol. I, p. 264). Che è come dire: mediante una perfetta organizzazione sul sociale si hanno la giustizia e il progresso sociale.
7) «Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Redemptor hominis», cit., n. 16).
8) Sul concetto di nobilitazione della violenza nella società contemporanea si veda S[ergio] Cotta [1920-2007], Perché la violenza?, Japadre, L’Aquila 1978.
9) È il problema affrontato da [Augusto] Del Noce [1910-1989], Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1970.
10) Secondo l’interpretazione heideggeriana di [Friedrich] Nietzsche [1844-1900], si avrebbe precisamente l’identificazione della verità con la pura e semplice volontà.
11) [Gorgia è un dialogo giovanile di Platone scritto intorno al 386 a.C., probabilmente al suo ritorno da un viaggio in Sicilia, dove avrebbe incontrato il retore Gorgia di Lentini (485/483-375 ca. a.C.)]
12) «[…] quoddam rationale coniugium contemplationis et actionis, officiis per quaedam singula distributis, tamen in utraque mentis unitate servata» [Sant’Aurelio Agostino,] De Trinitate, 12, 12, 18; PL 42, 1008.
13) «[…] quidquid in usu temporalium rationabiliter facimus, aeternorum adipiscendorum contemplatione faciamus, per ista transeuntes, illis inhaerentes» (ibid., 12, 13, 21; PL 42, 1009).
14) «[…] in finem constituendo in bonis talibus et in ea detorquendo voluntatem» (ibidem).
15) In sostanza, allora, la radice ultima della tragedia dell’uomo contemporaneo sta nella opzione immanentistica che, teologicamente, definisce il peccato come tale.
16) [Sancho Panza è un personaggio — lo scudiero del cavaliere — del romanzo Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616).]
17) A ragione, dunque, [padre Cornelio] Fabro [C.SS.R., 1911-1995] afferma che la decisione immanentistica costituisce un trauma per la libertà, così come la decisione contraria il realizzarsi compiuto della libertà medesima. Cfr. L’uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1967, pp. 372-376.
18) In questo senso, la domanda etica è fondamentalmente la domanda sulla realizzazione piena dell’uomo in quanto uomo e, pertanto, la risposta ad essa diventa il criterio valutativo ultimo di ogni realizzazione settoriale dell’umano — in economia, in politica e così via. Questa verità è richiamata dalla Redemptor hominis specialmente al n. 15, ove si parla di «domande essenziali» connotando così le domande etiche.
19) «Nusquam sublata differentia naturarum propter unitionem magisque salva proprietate utriusque naturae» [Heinrich Denzinger (1819-1883) e Adolf Schönmetzer S.I. (1910-1997) (a cura di), Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 33a ed. riveduta e accresciuta, Herder, Barcellona 1965, n. 302].
20) «Bisognava avere il coraggio di dire che la bontà di Cristo si manifesta in maniera maggiore, più divina e veramente secondo l’immagine del Padre quando si umilia nell’obbedienza fino alla morte di croce, piuttosto che se avesse voluto conservare come bene da non cedere la sua uguaglianza con Dio e avesse rifiutato di diventare servo per la salvezza del mondo» (Origene [185-254], In Joannem, 1, 32, ed. Preuschen [Die Johanneskommentar, a cura di Erwin Preuschen (1867-1920), Hinrichs’sche Buchandlung, Lipsia 1903], IV, 41).
21) «En passant au Père par l’obéissance jusqu’à la mort sur la croix, le Fils de Dieu a fait de sa Kénose la limite eschatologique du monde. Il montre que la creation n’a pas une fin immanente, dans laquelle peut trouver l’accomplissement de sa finalité naturelle, mais qu’elle trouve son innovation escatologique dans le mode d’exister par le Fils de Dieu» (J[ean]. M[iguel]. Garrigues, Maxime le Confesseur. La Charité avenir du monde, Beauchesne, Parigi 1976, p. 159).
22) La giustificazione teologica della necessità per la salvezza dell’uomo delle virtù teologali, in ordine al pieno compimento della persona umana, gratuitamente destinata ad essere in Cristo, è costante in san Tommaso [1225-1274]. L’esposizione più compiuta mi sembra che si trovi in De virtutibus in communi (q. un. a. 10), articolo di singolare potenza speculativa e ricchissima valenza antropologica. Il tema delle virtù è connesso col tema dell’excessus mentis, che è duplice, e nei confronti del corpo e nei confronti di tutto il mondo. Tenendo presente quanto già detto, arrivo a concludere che la definizione teologica di totalitarismo è la seguente: il totalitarismo consiste nella negazione della necessità delle virtù teologali.
23) È la tesi, classica con e dopo Agostino nell’etica cristiana, della carità necessaria per l’esercizio delle virtù morali. Nella teologia morale di san Tommaso il tema viene ripreso e rigorizzato nella tesi della carità forma, motor, radix di ogni virtù morale (cfr. Q. disp. un. De Caritate, a. 3) e nella tesi della necessità che anche le virtù morali siano infuse, non solo in ragione della necessaria sanatio ma anche per l’elevatio dell’uomo. Anche questo mi sembra un punto nodale di tutta la nostra riflessione. Poiché il «bene morale», in quanto connota il vivere secondo ragione nel tempo verso la visione beatifica di Dio, è partecipatio del bonum excedens e ultimo (cfr. 1, 2, q. 3, a. 2 ad 4um, a. 6c e ad 2um), ne è una similitudo (1, 2, q. 3, a. 6 ad 2um) e una inchoatio (1, 2, q. 5, a. 3c), si deve dare un rapporto fra l’esercizio della virtù nel tempo e la vita eterna (il rationale coniugium di Agostino). Questo rapporto è posto in essere, è reso possibile dal dono delle virtù morali infuse, in forza delle quali l’uomo vive e organizza la sua esistenza personale e sociale secundum regulas divinae sapientiae (De virtutibus, cit., ad 8um et 6um; cfr. anche 1, 2 q. 63, a. 4c).
24) Tommaso d’Aquino, In Rom., 5,3.
25) Cfr. Idem, De Veritate, q. 10, a. 11.
26) Cfr. Idem, 1, q. 62, a. 5, ad 1um.
27) Cfr. [Giovanni Paolo II,] Lettera enciclica «Redemptor hominis», cit., n. 17.
28) «Id […] quod est potissimum in Lege Novi Testamenti et in quo tota virtus eius consistit est gratia Spiritus Sancti quae datur per fidem Christi» (1,2. 106, a. 1c).
29) «Infatti […] tutti i tempi e tutto ciò che è nel tempo ha avuto in Cristo l’inizio del suo essere e il suo fine» (San Massimo il Confessore [580 ca.-662], Questioni a Talassio, 60; PG 90, 621 AC).