di Maurizio Brunetti
«Per 20 anni l’NKVD», cioè la polizia politica sovietica “antenata” del KGB e grosso modo corrispondente alla Gestapo nazionalsocialista, «al servizio di Stalin, ha imposto il terrore. Chi finiva nella lista dei nemici veniva arrestato, esiliato o ucciso». La scritta appare in sovraimpressione nei primissimi minuti di Morto Stalin se ne fa un altro, adattamento cinematografico della graphic novel intitolata La morte di Stalin, dei francesi Fabien Nury e Thierry Robin.
Il film è uscito nelle sale italiane nel gennaio 2018, ma ha avuto una distribuzione molto limitata e non è difficile immaginare perché. Come il titolo italiano lascia intuire, non si tratta di un documentario, ma di una black comedy: gli eventi a cavallo della morte di Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto «Stalin» (1878-1953), vengono acutamente raccontati all’insegna di un sarcasmo cupo e dissacrante. Tanto il fumetto quanto la pellicola descrivono la lotta feroce per la successione alla guida dell’Unione Sovietica ingaggiata dai membri del Politbjuro che agivano a più stretto contatto con il tiranno: Nikita Chruščëv (1894-1971), interpretato da Steve Buscemi, Georgij Malenkov (1902-1988), Nikolay Bulganin (1895-1975) e il mefistofelico Lavrentij Beria (1899-1953) – capo della polizia segreta nonché stupratore e pedofilo seriale –, «una banda di assassini, alcolizzati, fanatici e pervertiti», secondo la definizione tranchant di Nury (nell’intervista presente tra i contenuti speciali del DVD).
L’elemento surreale della narrazione, peraltro sostenuta da un cast di livello, diventa disturbante quando ci si rende conto che anche gli eventi più grotteschi nel film sono in realtà accaduti “alla lettera”. Una delle poche licenze degli sceneggiatori è l’aver “costretto” i fatti narrati in una sorta di pantografo temporale, riducendo nell’arco di 36 ore gli accadimenti di molti mesi.
Per esempio, è storicamente fondato, anche se avvenuto nell’immediato dopoguerra e non nel 1953, l’episodio raccontato nelle prime scene: la pianista Marija Judina (1899-1970) stava eseguendo l’Adagio dal Concerto per pianoforte e orchestra K488 di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791). Stalin, ascoltato il concerto in diretta radiofonica, ne fu talmente colpito da chiedere immediatamente il disco. Peccato, però, che del concerto non vi era stata alcuna registrazione. I commissari della radio allora convocarono d’urgenza Marija e l’orchestra registrando il concerto nell’arco di una notte e facendo pervenire il disco a Stalin in tutta fretta. È altrettanto vero che Marija, convertitasi ventenne al cristianesimo ortodosso, ebbe il coraggio di scrivere a Stalin la lettera citata nel film, in realtà per ringraziarlo di una somma che il despota comunista le aveva fatto pervenire: «La ringrazio per il suo aiuto, Iosif Vissarionovič. Pregherò giorno e notte per lei e chiederò al Signore che perdoni i suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso e la perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia».
Ricorrendo a dosi abbondanti di humour britannico irriverente, nello stile surreale del gruppo Monty Python – ne faceva parte, del resto, l’attore che nel film interpreta il tragicomico Vjačeslav Molotov (1890-1986) –, il lungometraggio fa emergere il misto di paura, terrore e odio reciproco che regnava fra i membri del Politbjuro. Stalin li convocava regolarmente, e ognuno di loro era ben consapevole che da un momento all’altro il despota poteva deciderne l’epurazione, inserendoli nella lista degli “oppositori” da eliminare che compilava quotidianamente.
Il film è sufficientemente scorretto da descrivere le conseguenze di un’ideologia estrema e totalizzante in tutta la loro disumanità, tanto da rendere labili i confini tra la tragedia e la farsa, un po’ come accade in alcune pagine di Arcipelago GULag di Aleksandr Solženicyn (1918-2008).
Lo stesso Stalin, in qualche modo, muore vittima del regime di terrore da lui imposto. Quando fu colto dal malore che gli sarebbe stato fatale, non vi erano più medici competenti in circolazione che potessero curarlo: li aveva fatti arrestare tutti, incluso il suo medico personale, dall’ottobre del 1952 con l’accusa di complotto antisovietico; un caso giudiziario, naturalmente, che, come molti altri, era stato montato ad arte dall’apparato al potere.
Inoltre – e l’episodio costituisce una delle scene di contorno più esilaranti – nella sera in cui, chiuso nel suo studio, Stalin viene colpito dall’ictus, le guardie sentono il tonfo della caduta, ma non entrano a soccorrerlo per paura: disubbidendo all’ordine impartito dallo stesso Stalin di non entrare nel suo ufficio se non dietro sua richiesta, avrebbero rischiando la morte o il GULag per sé e per i propri cari.
Il film, vietato in Russia, è stato premiato al Torino Film Festival 2017. In qualità di regista e sceneggiatore, lo scozzese di padre partenopeo Armando Iannucci inviò per l’occasione un breve filmato – pure inserito fra i contenuti speciali del DVD – spiegando che cosa lo avesse spinto a girare la pellicola: «L’ho fatto per lanciare un monito: non dobbiamo permettere che cose simili accadano di nuovo».
Sabato, 16 febbraio 2019