di Francesco Battistini dal Corriere della Sera del 11/11/2020
Il premier armeno accetta la perdita di territori. Assalto al palazzo del governo e alla sua villa
Si ferma la guerra lampo di Erdogan, avanza la lunga pace di Putin. Dopo 45 giorni, e per evitare altri massacri, Armenia e Azerbaigian accettano il cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh. Con questa firma, il leader russo mette il sigillo su una crisi che gli Usa non hanno potuto gestire, presi com’erano dalla campagna elettorale, e che l’Europa non ha saputo risolvere, nonostante l’impegno francese e i miliardi spesi in anni di peacekeeping. L’accordo sarà sorvegliato direttamente da Mosca e da Ankara: stabilisce che gli eserciti si fermino dove sono, che la Russia dislochi un contingente di duemila peacekeeper, che parta lo scambio dei prigionieri. Le armi hanno taciuto subito, ieri all’alba. E se a Baku sono scesi in strada, suonando clacson di gioia, a Erevan hanno devastato furiosi il palazzo del governo e la casa del premier, Nikol Pashinyan, chiedendone le dimissioni al grido di «traditore!». Dell’enclave centrasiatica d’etnia armena, che è contesa dalla fine dell’Urss e che nel 1994 gli armeni avevano riconquistato agli azeri, l’Armenia ormai controlla solo il capoluogo, Stepanakert, e poco altro.
Più che a una pace, in effetti, questo patto somiglia a una resa. Ammette lo stesso Pashinyan che è stata una firma «molto dolorosa di cui rimarrò responsabile, un grande fallimento e una grande catastrofe». Il leader armeno, che all’inizio della sua carriera politica sdrammatizzava l’eterna questione del Nagorno-Karabakh, ieri a un certo punto sembrava fuggito all’estero. Di sicuro, non può più rientrare nella sua villetta: la folla gli ha saccheggiato computer, orologi e perfino la patente di guida («certamente l’hanno fatto per la patria…», il suo amaro commento). Pashinyan è sotto accusa per la pessima gestione del conflitto, ma paga pure il «tradimento» di Mosca che non gli ha inviato armi e uomini, come previsto da un accordo militare. Questa guerra ha fatto in trent’anni 30 mila vittime e ha avuto anche un valore simbolico oltre i suoi confini, musulmani contro cristiani, richiamando l’interesse del neo-ottomano Erdogan e ribaltando i rapporti di forza: l’Azerbaigian superiore economicamente e militarmente, l’Armenia più abile a intessere solidarietà internazionale.
Che strana pace. Raggiunta dopo 1.400 morti in sei settimane e dopo tre cessate il fuoco, firmati e regolarmente falliti. Un successo diplomatico del Cremlino, che pure stava con gli sconfitti armeni, di fronte a una spiazzata Turchia, che spingeva i vincitori azeri e ora, invece, non partecipa al controllo militare e si limita a quello politico. «Un importante e benedetto successo», gioisce tiepido Erdogan: lo è, in ogni caso, per una potenza che mette radici in questa parte di Caucaso.
Per Mosca e Ankara, si trattava d’un dossier da chiudere in fretta: il ritiro armeno si snoderà da oggi a dicembre e il cessate il fuoco sarà «una pace duratura», spera Putin, durerà cinque anni e prevede l’invio di 1.960 soldati, con 400 fra mezzi corazzati e unità mobili. Non si sa se la Turchia richiamerà i foreign fighter siriani, inviati al fianco degli azeri, né se s’indagherà mai sui crimini di guerra. Assai probabile è che, a vigilare sulla pace, non ci saranno più gli osservatori europei dell’ Osce: un’altra vittoria dello Zar e del Sultano, che di questa parte d’Asia stanno tornando a essere i veri player.
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