Di Pio D’Emilia da Avvenire del 02/06/2021
Alla domanda su cosa dobbiamo dare ai nostri figli la risposta unanime è sicuramente: tutto quello di cui hanno bisogno. Sempre e comunque. E la maggior parte di noi, fortunatamente, lo fa. Meno scontata, soprattutto di questi tempi, è la risposta su cosa dobbiamo fare per i nostri “vecchi”: genitori, nonni, zii. L’abbandono – affettivo e/o economico – degli anziani è un problema sempre più drammatico della nostra società. Se ne stanno accorgendo in Giappone, Paese come il nostro dove i “vecchi” hanno sempre avuto un ruolo fondamentale e dove i legami familiari hanno una lunga e forte tradizione, ma anche una nazione caratterizzata da un aumento costante dell’aspettativa di vita e da uno speculare calo delle nascite. Mentre la popolazione mondiale continua ad aumentare – dagli attuali 7 miliardi passeremo a 9 miliardi entro il 2050 – il Giappone calerà dagli attuali 127 milioni a poco più di 90, entro il 2050, con il 40% della popolazione che avrà più di 65 anni. Un trend purtroppo condiviso anche dall’Italia, anche se per fortuna attenuato o compensato dal fenomeno dell’immigrazione, che in Giappone invece (ancora) non esiste.
I “vecchi” insomma, sono sempre di più, vivono sempre più a lungo e quando si ammalano, o per qualche motivo cadono in disgrazia, occuparsene diventa sempre più difficile. Avere i propri nonni in casa, soprattutto nelle grandi città, non è più la norma e nemmeno un privilegio: è diventato il lusso di pochi e un “fastidio” per molti. E infatti, nelle grandi città, gli anziani vengono sempre di più affidati alle case di riposo, e lì progressivamente dimenticati. Dopo un primo periodo in cui i parenti pagano le rette e vanno a trovarli, si passa alla fase in cui si pagano solo i conti. Poi neanche questo. E la situazione, improvvisamente, precipita. I media giapponesi recentemente hanno dedicato al problema dei “ suterareta ojisan” (letteralmente, gli “anziani scaricati”) parecchia attenzione. Sia la radiotelevisione di Stato, la NHK, che alcuni settimanali, denunciano una situazione sempre più drammatica. E questo nonostante il governo, negli ultimi anni abbia cercato di arginare il fenomeno, estendendo l’assistenza sociale, creando nuovi centri residenziali per gli anziani meno abbienti, sgravi fiscali e incentivi per chi mette al mondo i bambini. Ma non basta.
La rivista “SPA” ad esempio, descrive il dramma di migliaia di anziani che abbandonati da figli o nipoti, e incapaci di pagare la retta, vengono “sfrattati” senza tanti complimenti. E racconta, di una coppia, marito e moglie in sedia a rotelle, accompagnata con un pulmino in un parco, e lì abbandonata. La scena è stata filmata da un passante, che l’ha poi postata sui social. Ma nessuno sa che fine abbiano fatto. Una sorta di eutanasia sociale molto più crudele di quella praticata nel passato non tanto remoto, descritta nei racconti di Shichiro Fukasawa e immortalata ne “la Canzone di Narayama”, il capolavoro di Shoei Imamura, Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1983. Un film struggente che descrive nei minimi particolari, e con l’intensità emotiva che solo i grandi registi riescono a suscitare, l’usanza dell’ubasute, quella di accompagnare le donne anziane dei villaggi in cima ad una montagna, e lì abbandonarle, lasciandole morire di fame. Una bocca in meno da sfamare, si diceva.
«Ma almeno all’epoca gli anziani venivano accompagnati dai figli o dai nipoti – spiega lo scrittore Masahiko Shimada, autore molto sensibile alle tematiche sociali – l’evento era preparato per tempo da tutta la famiglia e condiviso dall’intero villaggio. Ora il tutto avviene nella più assoluta indifferenza, sia dei familiari che delle istituzioni». Secondo Shimada, la pratica dell’ubasute, che tradizionalmente riguarda solo le donne, oggi si è estesa ai vecchi in generale: oyasute, quindi, “abbandono dei vecchi”. Un vero e proprio senicidio per conto terzi, così lo definisce lo scrittore, che figli, nipoti e parenti vari delegano a varie istituzioni, spesso nella consapevolezza, se non certezza, che sia un modo socialmente accettabile di sbarazzarsi dei propri “vecchi”. Un processo che ha visto il suo culmine negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, quando l’economia pompava al massimo e il Giappone era in corsia di sorpasso. Chi non voleva o non poteva stare al passo doveva arrangiarsi. All’epoca ci si rivolgeva agli ospedali: non essendoci abbastanza case di riposo, né pubbliche né private, si ricorreva alla cosiddetta “ospedalizzazione sociale”. Un sistema conosciuto e in parte praticato anche da noi. I vecchi venivano ricoverati con una diagnosi qualsiasi e poi “parcheggiati” a tempo indeterminato, in reparti dedicati, sfruttando le larghe maglie del sistema sanitario pubblico, tra i più completi e generosi al mondo. Fino alla fine degli ’90 erano centinaia di migliaia gli anziani “residenti” negli ospedali, a carico dello Stato. Ma poi anche il Giappone – che continua a denunciare il più alto deficit pubblico dei Paesi Ocse, oltre il 250% del Pil – ha iniziato le riforme, e il sistema sanitario è stato tra quelli più colpiti da tagli nei servizi e aumento dei costi. Nel giro di pochi anni, il parcheggio in ospedale non è più un opzione. E la situazione è peggiorata.
In Giappone ostentare la propria condizione sociale, nel bene e nel male, è considerato grossolano e inopportuno. E come i super ricchi evitano – tranne qualche rara eccezione – di sfoggiare le loro ricchezze, anche i poveri cercano di non farsi vedere in giro. La solidarietà sociale in Giappone non è molto diffusa, e la povertà non è oggetto di compassione. Piuttosto, è criticata, se non condannata, come prova di un fallimento personale di cui la società non deve sentirsi responsabile. Un sentimento molto diffuso e condiviso, al quale si oppongono, con grande fatica, solo piccole comunità di ispirazione cristiana, le uniche che organizzano iniziative di solidarietà sociale come la distribuzione di pasti e presidi di assistenza sanitaria. Ma non sono molto frequentati. La maggior parte dei poveri, in Giappone, preferisce restare nell’anonimato più assoluto, cercando di mantenere allo stesso tempo grande decoro e dignità personale. Soprattutto, evitando di rivendicare diritti che non vengono percepiti come tali. Così, mentre i più “furbi” commettono qualche piccolo reato (soprattutto furti nei negozi) per garantirsi, almeno nei mesi invernali, un tetto e un pasto caldo in carcere, la maggior parte si dà da fare con piccoli lavoretti che consentono loro di pagarsi un posto letto e il cibo.
Quelli che possono, restano (o tornano, se le avevano lasciate per andare in un pensionato) nelle loro vecchie case, spesso fatiscenti, magari con le utenze già staccate da tempo. E li si lasciano morire, di fame. Magari qualche figlio, qualche parente ce l’hanno. Ma non si fanno più vivi. Si chiamano kodokushi, morti in solitudine. Spesso i loro corpi vengono trovati in avanzato stato di decomposizione, perché possono passare mesi, prima che qualcuno se ne accorga. Un fenomeno molto triste. Che purtroppo le statistiche danno in costante aumento.
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