di Valter Maccantelli
È trascorsa una settimana dall’inizio delle operazioni militari della Turchia nel nord della Siria e, alla luce del detto secondo il quale nessun piano di guerra sopravvive al campo di battaglia perché il nemico non collabora, sembra necessario aggiungere qualche tessera al mosaico.
Poco è stato finora detto sulle motivazioni interne che hanno spinto il presidente turco ad agire proprio ora; il cosiddetto “via libera” statunitense di domenica scorsa, pur significativo, è poco più di una clausola liberatoria in una narrazione ben più articolata.
Recep Tayyip Erdogan è senza dubbio un autocrate che si vede allo stesso tempo autore e protagonista del destino di un popolo, quello “turco”, che ha vissuto i fasti imperiali e che anela a ripeterli. Un autocrate in difficoltà, però: ha chiesto pieni poteri, dai plebisciti elettorali alla riforma presidenzialista del 2017, e li ha ottenuti a scapito di ampie porzioni di libertà e di diritti della società, ma fa fatica a mantenere il trend promesso.
Il miracolo economico turco, che ne ha accompagnato l’ascesa e sulla base del quale il leader aveva lanciato ambiziosi programmi di sviluppo, sta velocemente planando verso una recessione che soffoca le aspettative di benessere della sua base elettorale. La lira turca, che aspirava a un posto nell’olimpo monetario almeno regionale, nell’estate 2018 è stata oggetto di un attacco speculativo (probabilmente il famoso «l’ho già fatto una volta» del tweet di Donald Trump) che ha innescato loop inflattivi più simili a quello di un Paese del terzo mondo che del primo. La compensazione economica ottenuta dall’Unione Europea, grazie ai buoni uffici della Germania, per il contenimento dei profughi siriani si sta rivelando decisamente insufficiente a contrastare gli effetti perversi della presenza di una massa così rilevante di schiavi potenziali sul fragile mercato del lavoro, specialmente nelle grandi aree urbane.
Questo ha determinato dei contraccolpi politici evidenti: fra le elezioni politiche del 2015 e quelle del 2018 l’AKP, il partito del presidente, pur rimanendo il primo partito della Turchia, ha perso quasi 7 punti percentuali e, a fronte di un processo di convergenza fra anime diverse dell’opposizione, oggi riesce a stento a mantenere la maggioranza. Se è vero che la cosa è quasi irrilevante, poiché la riforma costituzionale del 2017 – confermata con un referendum popolare che l’ha approvata di stretta misura (51,4 % di “sì”) – prevede il potere del presidente di ribaltare d’autorità qualunque iniziativa dell’assemblea parlamentare, è altrettanto vero che, preso come sondaggio, il risultato evidenzia un’erosione del consenso popolare del leader.
Lo smacco più duro per l’AKP e per Erdogan è arrivato con le elezioni amministrative di Istanbul la scorsa primavera. A marzo il candidato dell’opposizione, Ekrem Imamoglu, aveva vinto, anche se di stretta misura e in maggio la commissione elettorale ha annullato le elezioni, decretandone il rifacimento per il 23 giugno. Anche in questa seconda tornata lo stesso Imamoglu ha rivinto, con un margine superiore a quello di marzo, consegnando all’opposizione, dopo Ankara e Smirne, anche la prima città del Paese. La vittoria dell’opposizione è stata attribuita al diffuso malcontento delle periferie urbane della megalopoli eurasiatica a causa della recessione economica e della presenza di quasi mezzo milione di profughi siriani.
Per Erdogan Istanbul non è una città qualunque: è stata il suo trampolino di lancio verso il successo. Qui è nato, nel 1954, da famiglia modesta proprio in quel distretto periferico Kasimpasa che oggi gli ha quasi voltato le spalle. Qui è iniziata la sua carriera politica, quando, nel 1994, ne divenne sindaco non senza sorpresa di molti. Qui, nel 1998, fu tra i fondatori della sua culla politica, quel Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) che lo avrebbe portato fino alla carica di primo ministro, nel 2003, e poi alla presidenza dal 2014.
La sconfitta ha determinato non pochi malumori nell’AKP. A luglio ha abbandonato il partito Ali Babacan, strettissimo collaboratore di Erdogan e, come ministro per l’Economia dal 2002 al 2007, considerato da molti l’artefice del miracolo economico di quegli anni. Babacan non solo ha abbandonato l’AKP, ma ha dichiarato che lui e i suoi amici avvertono un bisogno di cambiamento nella politica turca, “e di un nuovo presidente” non l’ha detto, ma molti hanno finito la frase al posto suo. In agosto l’ex primo ministro Ahmet Davutoglu, anche lui personaggio di primo piano e ideatore del cosiddetto progetto “neo-ottomano” per dare alla Turchia un posto di prima fila nel panorama geopolitico, ha lasciato il partito e ha annunciato l’intenzione di dare vita a una nuova formazione politica.
Di fonte a queste difficoltà Erdogan, con la campagna di Siria contro l’atavico nemico curdo, ha calato una delle carte ultime e più efficaci, con la quale si gioca l’intera posta della propria esistenza politica. Molti prima di lui hanno fatto ricorso a un nemico, fantoccio e feticcio – esterno o interno -, per conquistare l’appoggio del popolo, e parecchi hanno fallito. Erdogan ha invece qualche chance in più perché fa leva su un’idiosincrasia etnica reale e antica.
L’identificazione dei curdi come nemici dello Stato, sempre protesi a minarne l’unità, la sicurezza e l’integrità etnica, risale alla fondazione stessa della Turchia moderna da parte di Moustafa Kemal Atatürk (1881-1938). Il «Padre dei Turchi» (questo il significato del soprannome «Atatürk») ha ribaltato la visione ottomana che, in quanto imperiale, tollerava la presenza di popoli diversi nel proprio territorio, incernierando invece l’idea di nazione su un unico concetto: l’unità dello Stato rigorosamente turco. Unità e omogeneità che la galassia curda, in parte inclusa nei turchi confini e in parte stanziata attorno, lede con la propria sola esistenza.
Il Trattato di Sèvres, concluso nel 1920 fra le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale (1914-1918) e l’impero ottomano, riportava esplicitamente la previsione di uno Stato curdo indipendente. Quando l’Atatürk conquistò manu militari il controllo dei territori sopravvissuti al crollo dell’impero si rese necessario un nuovo trattato e uno dei punti su cui la nuova Turchia fu irremovibile fu proprio l’eliminazione di questa previsione, che risultò difatti assente dal testo del successivo Trattato di Losanna del 1923. Fra la Prima e la Seconda guerra mondiale (1939-1945) scoppiarono ben tre rivolte delle popolazioni curde inglobate nella nuova Turchia, tutte represse duramente al punto di eliminare le parole «curdo» e «Kurdistan» dal vocabolario e dalla toponomastica della “repubblica dei turchi”. Si passò a definire i curdi «turchi di montagna» e il Kurdistan «Anatolia sud-orientale».
Da allora, prima grazie al nazionalismo “in purezza” dei regimi militari succedutisi al potere e poi a quello “neo-ottomano” dell’AKP, questi sentimenti sono sempre stati accuratamente coltivati e conservati nella società turca. Su questa tradizione, certamente non condivisa da tutta la popolazione ma comunque ben radicata, oggi Erdogan tenta di ricompattare le forze della nazione attorno alla propria leadership.
Questo spiega alcune cose: l’onnipresente censura interna, che vieta a chiunque di parlare di “guerra” – farlo darebbe ai curdi la dignità di avversario paritario –, ma solo di operazioni di polizia e di sicurezza in chiave anti-terroristica; il feroce linguaggio comunicativo, che elenca nel dettaglio il numero di “terroristi” morti e che si sofferma compiaciuto sulla violenza della loro uccisione; l’assoluta indifferenza verso il costo umano e materiale dell’operazione, anche di un eventuale scontro diretto con l’esercito siriano.
Ma dice anche alcune cose sul possibile futuro a breve termine: Erdogan non si fermerà, almeno fino a quando non riterrà di avere raggiunto un successo “spendibile” sul piano interno. Non lo farà certo per le minacce, più verbali che reali, di embargo economico o militare europeo e neppure per le minacce, più realistiche, di ritorsioni economico-finanziarie degli Stati Uniti d’America: anzi, pensa (e forse con ragione) che queste pressioni esterne lo accreditino ulteriormente come supremo difensore della Turchia.
In fondo anche Erdogan in Siria si sta giocando la pelle: può vincere e quindi vivere, al massimo può pareggiare – in uno lungo scontro di posizione – e comunque sopravvivere; ma la sconfitta no, non è contemplata.
Giovedì, 17 ottobre 2019