Di Giulio Meotti da Il Foglio del 02/07/2020
Katrina Jackson è una leader a dir poco improbabile del fronte pro life americano. È liberal, nera e democratica in uno stato come la Louisiana, è contro la pena di morte, a favore del Medicaid e del salario minimo. Ma quando si tratta di aborto, la senatrice della Louisiana è eretica rispetto al suo stesso partito e lo chiama “moderno genocidio” (61 milioni di aborti dal 1973, l’anno della sentenza Roe vs. Wade).
“Non ci fermeremo mai, è la cosa più importante per cui potremmo mai combattere nella nostra vita”, ripete Jackson. “E’ molto coraggiosa, essere una democratica pro life è una terribile solitudine”, dice di lei Kristen Day, a capo dei Democrats for Life, che oggi sembra un ossimoro ma un tempo era una nobile tradizione politica. Il Wall Street Journal in un editoriale non firmato li ha definiti così: “I democratici pro life sono rari quanto i panda, ma molti nella direzione del loro partito non saranno soddisfatti fino a quando non saranno estinti”.
La Louisiana, che aveva già bandito l’aborto oltre le venti settimane, aveva varato una legge che riguarda “i privilegi di ammissione”: alcuni medici di cliniche private che praticano l’aborto avrebbero potuto far ricoverare le pazienti solo negli ospedali che si trovano entro 30 miglia dalla propria clinica, riducendo così il numero di ospedali accessibili. La speaker Nancy Pelosi aveva parlato di “attacchi pericolosi al diritto costituzionale delle donne all’aborto”. Warner, Disney e Netflix avevano già iniziato il boicottaggio della Louisiana. La Corte suprema, con cinque voti a quattro, ha appena annullato la legge, dietro cui c’era proprio Katrina Jackson. Ieri, su Usa Today, la senatrice ha rivendicato la legge: “Hanno messo gli interessi delle aziende abortiste al di sopra della salute e della sicurezza delle donne. La Louisiana protegge la vita, la vita sia della donna sia del nascituro”. John Bel Edwards, alla guida della Louisiana, è l’unico governatore democratico nel profondo sud e l’unico che si oppone all’aborto. L’idea dei Democrats for Life è che i “non nati” sono una minoranza bisognosa di tutela, come i poveri e gli afroamericani, e si ispirano alla stessa visione di chi si oppone alla corsa agli armamenti e alla pena di morte. Come Dan Lipinski, “l’ultimo dem pro life del Congresso” (nel 2000 erano ancora una quarantina), che ha perso le primarie nell’Illinois a causa della sua visione sull’aborto: “Non potrei mai rinunciare a proteggere gli esseri umani più vulnerabili del mondo, semplicemente per vincere un’elezione”. Come Alveda King, democratica e nipote del più famoso Martin Luther, che non si stanca di ripetere che l’aborto è la principale causa di morte dei neri d’America. Come Bob Casey, governatore democratico della Pennsylvania il cui nome è finito anche nella storica sentenza “Planned Parenthood vs Casey”, e a cui fu impedito di tenere un discorso alla convention dem dove Bill Clinton riceveva l’investitura per la Casa Bianca. O come Nat Hentoff, amico di Malcolm X e autore di testi per Bob Dylan, firma del New Yorker e icona dell’American Civil Liberties Union, la mega lobby dei diritti civili, che sferzava così i compagni di partito: “Siamo i campioni degli indifesi, tranne che degli esseri umani più vulnerabili che non sono ancora nati”. I colleghi del Village Voice, il suo ultimo giornale di sinistra, lo accusavano di essersi convertito al cattolicesimo, “l’unica spiegazione che possono darsi per la mia apostasia. Pensano che sia Satana o un ‘born again’. Solo perché disturbo i loro stereotipi”. Come fa Katrina Jackson, che manda in corto ogni rassicurante luogo comune. Black lives matter, a cominciare da quelle non ancora nate.
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