di Michele Brambilla
L’udienza generale che Papa Francesco tiene il 1° maggio riveste un rilievo particolare in quanto tocca il versetto del Padre nostro oggetto di una recente e discussa modifica nel testo proposto per l’uso liturgico: «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13). L’abolizione della precedente traduzione, «non ci indurre in tentazione», è già entrata in vigore nel dicembre 2017 in Francia e il 15 novembre 2018 la CEI ha compiuto il medesimo passaggio, che sarà definivo con la futura pubblicazione della terza edizione in lingua italiana del Messale Romano riformato secondo le norme del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-65).
Soffermandosi sulla questione linguistica, Francesco riconosce che «come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti. Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato per tendere insidie e tranelli ai suoi figli».
Quella che emergerebbe dal verbo “indurre” (latino inducere) sarebbe, secondo il Pontefice, un’immagine diametralmente opposta alla realtà del Dio cristiano. «Un’interpretazione di questo genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con “Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli». Erano gli dèi pagani che, dall’alto dell’Olimpo, si divertivano a seminare discordia e turbamenti tra gli uomini, salvo essere sottoposti anch’essi al Fato imperscrutabile. La Scrittura rivela invece un Dio ben diverso: «leggiamo nella Lettera di Giacomo apostolo: “Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr Lc 11,11) – come Gesù insegna – e quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”».
Il Padre non viene certamente tentato, tuttavia il Figlio nel corso della propria vita terrena si è dovuto confrontare con il tentatore (che per il Papa esiste certamente: «Satana era presente. Tanta gente dice: “Ma perché parlare del diavolo che è una cosa antica? Il diavolo non esiste”. […] Gesù si è confrontato con il diavolo, è stato tentato da Satana»), stando alle pagine di Vangelo lette giusto all’inizio della Quaresima. «In questa esperienza il Figlio di Dio si è fatto completamente nostro fratello, in una maniera che sfiora quasi lo scandalo. E sono proprio questi brani evangelici a dimostrarci che le invocazioni più difficili del “Padre nostro”, quelle che chiudono il testo, sono già state esaudite: Dio non ci ha lasciato soli, ma in Gesù Egli si manifesta come il “Dio-con-noi” fino alle estreme conseguenze», fino a dare la vita sulla croce, inchiodando su di essa, come dice san Paolo, «[…] il documento scritto contro di noi» (Col 2,14), ovvero la sentenza inflitta ai Progenitori a motivo del peccato originale. Cristo morto e risorto dimostra che il male non ha l’ultima parola. «È il nostro conforto nell’ora della prova: sapere che quella valle, da quando Gesù l’ha attraversata, non è più desolata, ma è benedetta dalla presenza del Figlio di Dio. Lui non ci abbandonerà mai!».
Giovedì, 2 maggio 2019