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Nota sull’invocazione Sub tuum praesidium e sulla preghiera a san Michele Arcangelo

29 Ottobre 2018 - Autore: Alleanza Cattolica

Cristianità n. 393 (2018)

Nota sull’invocazione Sub tuum praesidium e sulla preghiera a san Michele Arcangelo

1) L’invocazione Sub tuum praesidium è probabilmente la più antica delle preghiere mariane pervenuteci. La presenza del testo sul papiro Rylands 470, ritrovato nel 1917, rafforza l’ipotesi che sia stata redatta in Egitto, a metà del secolo III, in un momento in cui la Chiesa africana viveva un momento di grave crisi e sofferenza dovuto alle persecuzioni degli imperatori Gaio Messio Quinto Traiano Decio (201-251) e Publio Licinio Valeriano (200-260 ca.).

La preghiera, sia pure con traduzioni variabili da comunità a comunità, è entrata ben presto nell’uso liturgico tanto dei riti orientali — quelli bizantino, armeno, siro-antiocheno, siro-caldeo e malarabico, maronita ed etiopico — quanto dei riti ambrosiano e romano.

La traduzione latina della forma «romana», già presente nell’antifo­nario carolingio di Compiègne, ricorre al vocabolo «praesidium», che è un lemma del lessico militare: la protezione che si richiede alla Vergine Maria, data la gravità e l’imminenza del pericolo, è assimilata a quella che ci si aspetterebbe da una scorta armata.

Pure significativo è l’uso degli appellativi «Madre di Dio» e «Vergine gloriosa» molto prima che i Concili di Efeso (431) e il Secondo Concilio di Costantinopoli (553) proclamassero rispettivamente il dogma della maternità divina di Maria e quello della sua verginità perpetua.

2) La preghiera a Michele, «capo supremo delle milizie celesti», risale invece a Leone XIII (1878-1903) e fu inserita nel 1886 nelle cosiddette «preci leonine», quelle che dal 1884 si recitavano al termine di ogni Messa non cantata «per la libertà e l’esaltazione della Santa Chiesa», giacché l’occupazione militare degli Stati Pontifici da parte del Regno d’I­talia nel 1870 aveva reso periclitante l’indipendenza del Pontefice. La situazione migliorò solo con i Patti Lateranensi, il trattato del 1929 con cui lo Stato italiano riconobbe la Città del Vaticano come Stato sovrano. Un anno dopo Pio XI (1922-1939) stabilì che le preci leonine dovessero comunque recitarsi, ma con una nuova intenzione: perché fosse «restituita ai figli afflitti della Russia la tranquillità e la libertà di professare la fede» (1).

L’uso liturgico della preghiera a san Michele decadde nel 1964 con l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti Inter oecumenici. Trenta anni dopo, «[…] anche se oggi questa preghiera non viene più recitata al termine della celebrazione eucaristica», san Giovanni Paolo II (1978-2005) esortò tutti a non dimenticarla e «[…] a recitarla per ottenere di essere aiutati nella battaglia contro le forze delle tenebre e contro lo spirito di questo mondo» (2). La preghiera di Leone XIII a san Michele esordisce come il versetto dell’Alleluia nelle Messe di rito tridentino dell’8 maggio — festa liturgica in cui si commemora l’apparizione di san Michele sul monte Gargano alla fine del secolo V — e del 29 settembre. Si tratta dell’antifona che, da vari decenni, i militanti di Alleanza Cattolica recitano dopo la «preghiera di Fatima» al termine di ogni decina del santo Rosario: «Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; ut non pereamus in tremendo iudicio». Si chiede cioè a san Michele Arcangelo che ci difenda nella battaglia affinché, nel giorno del Giudizio, non sia decretata la nostra morte eterna.

Note:

(1) «[…] ut afflictis Russiae filiis tranquillitatem fideique profitendae libertatem restitui sinat» (Pio XI, Allocuzione concistoriale «Indictam ante» del 30-6-1930, in Actes de S. S. Pie XI, testo latino con trad. fr., tomo VI, Mason de la Bonne Presse, Parigi 1934, pp. 216-227 [p. 224]).

(2)  Giovanni Paolo II, Angelus del 24-4-1994.

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