La dottrina sociale della Chiesa spiega perchè non è giusto implementare il controllo statale sull’educazione dei bambini
di Vera Albé
Enrico Letta, qualche giorno fa, ha annunciato che nel programma elettorale del PD è stata inserita la proposta di una scuola dell’infanzia (la vecchia “scuola materna” o “asilo”) «gratuita e obbligatoria» dai 3 anni in su, al fine di aiutare e promuovere le famiglie, il lavoro femminile, e soprattutto il benessere dei bambini.
I dati ci dicono che di fatto già il 90% dei bambini italiani si avvale dai 3 anni della scuola dell’infanzia, del tutto in linea con l’obbiettivo posto dall’Europa su questo tema. Studi dell’Ocse osservano che un inizio precoce delle attività educative può portare benefici allo sviluppo dei bambini, portandoli con più facilità ad ottenere buoni risultati nella successiva carriera scolastica.
Potrebbe dunque la proposta di Letta essere considerata come un utile aiuto per una minoranza svantaggiata di bambini, per lo più appartenente ad una fascia di povertà e disagio sociale che, grazie all’obbligo, finalmente accederebbe ad un ambiente sano, una buona alimentazione, relazioni adeguate con coetanei e un’educazione precoce alle regole di base del vivere comune?
In realtà l’idea non convince. Sono state immediate le reazioni negative negli schieramenti politici più diversi, da Calenda («non si può sentire»), a Carfagna («stile sovietico»), all’ironia di Salvini («idee geniali»), fino ai fischi della platea del Meeting a Rimini. La prontezza di queste reazioni mostra che, forse, i parlamentari citati sanno di cavalcare un sentimento di ampia parte della popolazione, che di obblighi, in questi tempi post-pandemia, non ama più sentir parlare, e forse a ragione. Se anche la scuola materna può presentare vantaggi per i bambini, la via dell’imposizione per legge non è certo il miglior veicolo promozionale.
Al di là della reazione istintiva, però, le argomentazioni contro la scolarizzazione obbligatoria dai 3 anni sono molteplici. La proposta è, infatti, figlia di uno statalismo tipico della sinistra, lo stesso che da sempre mal tollera e ostacola la scuola paritaria e la libertà di educazione. E’ l’opposto del principio di sussidiarietà, uno dei principi cardine della dottrina sociale della Chiesa.
Il principio di sussidiarietà si propone come uno dei criteri base di organizzazione di una società che si ritiene composta da uomini intesi come persone libere, ossia responsabili del proprio destino e in grado di fare scelte di valore per la propria esistenza. Solo quando la persona, necessariamente, si scopre non autosufficiente, ecco che l’intervento sussidiario spetta ad altri, a partire dai più vicini, su su fino allo Stato. Ma è essenziale che l’iniziativa venga dal centro – dalla persona – verso l’esterno e non viceversa, altrimenti «potrebbe risultare facile strumento per un maggiore e più incisivo esercizio del potere dal vertice nei confronti della base (…), consentirebbe una più capillare azione della autorità politica all’interno della società civile, e conseguentemente la possibilità di un controllo sociale più efficace». Il controllo del tempo libero e l’isolamento dell’individuo dalla famiglia e dai corpi intermedi sono gli strumenti base di ogni regime totalitario.
La Costituzione Italiana, infatti, piena di anticorpi contro l’appena caduto regime fascista, non a caso sancisce con chiarezza che il compito primario dell’educazione dei bambini è dei genitori. Secondo l’Art.30 «E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli», mentre l’Art.37 dice che«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
Del resto, la libertà di educazione dei genitori e la loro centralità sono sempre stati il perno della riflessione del Magistero della Chiesa su questi temi. Leggiamo ad esempio nella Dichiarazione sull’Educazione Cristiana del Concilio Vaticano II: «I genitori hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa, è tanto importante che, se manca, può a stento essere supplita».
Si potrebbe giustificare l’obbligo scolastico precoce come un aiuto per le mamme che vogliono o devono lavorare, ma è una toppa peggio del buco, come tutto il filone di pensiero che vorrebbe aiutare la famiglia insistendo esclusivamente sul potenziamento degli asili nido. A parte il fatto che -ribadiamo – il 90 % dei bambini va già alla materna, la madre che lavora ha bisogno di ben altro.
Per attuare la riforma di Letta l’impegno economico sarebbe notevole: per integrare il 10% che ancora non frequenta, sarebbe necessario ovviamente creare nuove strutture, nuove classi, nuovi insegnanti. E se tutto, pasti compresi, fosse davvero gratuito, l’esborso sarebbe, secondo alcune stime, di 3 miliardi e mezzo l’anno.
Lasciamo da parte il fatto che è una stima fatta solo sulla percentuale di alunni delle scuole statali e non si citino le scuole comunali e le pubbliche paritarie. Chiediamoci, invece, perché, ad esempio, non usare queste risorse per premiare o detassare le aziende che agevolano la maternità in vario modo e soprattutto concedono il part time alle madri che lo chiedono, rendendo ottenibile con certezza una modalità di lavoro che è decisamente più compatibile con la crescita dei figli e che, invece, adesso è spesso una chimera per la neomamma, oltre ad essere percepita come penalizzante? Sarebbe una misura basata sulla realtà, portatrice di libertà e sicuramente corrispondente al desiderio di quasi ogni donna di occuparsi da vicino dei primi, fondamentali anni di vita dei suoi bambini.
Del resto la donna impegnata nel lavoro sa che, di per sé, l’asilo risolve il menage familiare, ma fino ad un certo punto: sono poche le professioni che ti permettono di uscire prima delle 16.00 per recuperare tuo figlio senza implementare costosi post-scuola, babysitter o altre onerose attività extra. Solo un mondo del lavoro che sa modularsi con flessibilità sulle esigenze della donna-mamma – perché ne riconosce il fondativo valore sociale – e non puntellato da soluzioni stataliste segnerà veramente la promozione della professionalità femminile e potrà ridare un po’ di voglia di famiglia agli italiani in affanno da crisi demografica.
Mercoledì, 7 settembre 2022