Evento raro per definizione, il transito di un pontefice (sia pure emerito) mostra anche per via simbolica il paradosso di Pietro che “sopravvive” nei suoi successori, sepolti accanto a lui.
di Stefano Chiappalone
“Ogni morte di Papa” è espressione proverbiale, comunemente usata per indicare circostanze rare, come appunto, ordinariamente, il decesso del Romano Pontefice. Così raro che la cosiddetta “generazione del millennio” (vulgo millennials), compreso chi scrive, non vi aveva mai assistito fino al 2005. Salvo eccezioni, come tutte le cose umane, poiché la generazione precedente ne vide invece morire ben due nel 1978 a neanche due mesi di distanza. E poi di nuovo così raro che i nati in quel 2005 in cui il santo Papa polacco lasciò questo mondo sono ormai giunti alla soglia della maggiore età.
Diciott’anni, e di nuovo è morto un Papa, benché non più effettivamente tale da un decennio, avendo trascorso più tempo da emerito che da regnante. Va pur chiarito che al momento estremo non c’è differenza tra chi ha rinunciato e chi muore in carica: anche in quest’ultimo caso – per definizione e senza bisogno di scomodare il signore di Lapalisse – il morto non regna più. Ma in entrambi i casi, l’uomo che di volta in volta giace esanime in basilica è stato Pietro, e Pietro gli sopravvive nei successori.
Diciott’anni, e il cardinal decano Joseph Ratzinger, che l’8 aprile del 2005 officiava le esequie del predecessore e di lì a poco ascendeva al sacro soglio col nome di Benedetto XVI, adesso era a sua volta disteso sul catafalco sotto la Confessione di Pietro, altare papale per eccellenza. Al di sopra, levando lo sguardo alla cupola, quel «Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam» che un giorno fu rivolto anche a lui e che continua a riecheggiare al di là della fine (o della rinuncia) dei suoi destinatari. Intorno alla salma del venerando vegliardo bavarese una folla rivelatasi ben superiore alle stime, che non aveva dimenticato quel “già Papa” celato al mondo da dieci anni e che da allora aveva ormai ceduto le chiavi al successore.
Anche per Benedetto si rinnovano i riti delle esequie pontificie, sia pure in forma via via più semplificata nel corso del Novecento e, in ultimo, dall’inedita situazione di un pontefice che non è più tale ma lo è stato anni addietro. Rivestito dei paramenti rossi, colore del lutto papale, con la mitria bianca bordata d’oro, parato per andare a celebrare la liturgia celeste. Insieme alla deposizione delle monete coniate durante il pontificato e del rogito che ne riassume per sommi capi la quasi centenaria esistenza, c’è l’ultimo intimo gesto: la velatio. Poco prima di chiudere la bara il segretario mons. Gänswein (per San Giovanni Paolo II fu mons. Dziswisz) distende un velo candido sul volto del defunto. Gesto tradizionalmente affidato a un familiare, che ha così il privilegio di essere l’ultimo a vederne le sembianze. Da quel momento in poi il volto di Joseph Ratzinger è celato per sempre agli occhi del mondo, perché già immerso nell’eternità. Infine, la sepoltura nelle grotte vaticane, insieme ai predecessori (non tutti, ma buona parte) deposti accanto alla tomba del Pescatore di Betsaida, quasi a confondere le proprie ossa con quelle del principe degli apostoli. Sul colle vaticano le ossa di Simone di Giona, divenuto Pietro, si mescolano a quelle degli uomini a lui succeduti in duemila anni: sono tutte “ossa di Pietro”, che siano appartenute a martiri (specie nei primi secoli), santi o peccatori (una catena in cui c’è spazio per ogni virtù e ogni difetto, mediocrità compresa) e tutti – nella miseria della loro condizione umana – a loro volta soggetti allo stesso destino di passarsi il testimone delle somme chiavi in una staffetta destinata a finire con la consumazione dei secoli.
Sabato, 28 gennaio 2023