
Da Avvenire del 21/04/2021
Da settimane il Pakistan è scosso dalle protesta violenta organizzata dal Tehreek-e-Labbaik Pakistan ( Tlp) motivata dalla rivendicazione francese della libertà di critica dell’islam.
Il partito, illegale dal 15 aprile, che nel novembre guidò la protesta estremista contro la scarcerazione della cattolica Asia Bibi, è esempio di come l’estremismo islamico in Asia non si alimenti più solo dell’esasperazione di princìpi della fede tradotta nella richiesta di imporre la “sharia”, ma partecipi ormai pienamente al gioco politico come è evidenziato in Bangladesh, Indonesia e Malaysia. Dove ne vede la possibilità si dedica a campagne denigratorie e violente contro le minoranze religiose.
Integralismo, strumentalizzazione politica, sottomissione – afferma il rapporto di Aiuto alla Chiesa soffre – sono i tre fattori concomitanti che sembrano guidare la persecuzione religiosa nel continente asiatico. Con un ulteriore fattore, il nazionalismo che si evidenzia maggiormente nelle realtà di fede induista (India, Nepal) o buddhista (Bhutan, Cambogia, Myanmar, Sri Lanka, Thailandia). La conversione al cristianesimo in maggioranza da gruppi meno favoriti della popolazione diventa in diversi casi un ulteriore elemento che favorisce l’oppressione.
«Ho lavorato in comunità rurali in cui i cristiani non erano rispettati a causa della loro fede ed erano interdetti da negozi, ristoranti e caffé. In questi luoghi, ai nostri fedeli non era permesso toccare i bicchieri o altre stoviglie utilizzate dalla comunità di maggioranza. Continuiamo inoltre a sostenere le giovani appartenenti a minoranze religiose, che sono particolarmente esposte a rischi. Si tratta di ragazze che, nonostante siano minorenni, vengono rapite, costrette a convertirsi e a sposarsi e subiscono anche stupri e altri abusi», ricorda nel Rapporto di Acs padre Emmanuel Yousaf, direttore nazionale della Commissione nazionale Giustizia e Pace del Pakistan. In questo Paese, «gli emendamenti alle leggi sulla blasfemia approvati negli anni Ottanta sono sfruttati dagli estremisti che utilizzano impropriamente la legislazione per terrorizzare le comunità religiose di minoranza».
Sicuramente la discriminazione su base religiosa riguarda un maggior numero di Paesi, tuttavia, Aiuto alla Chiesa che soffre ricorda che «mentre la libertà religiosa in Africa soffre a causa delle violenze intercomunitarie e di quelle jihadiste, in Asia la persecuzione dei gruppi religiosi è principalmente ad opera di dittature marxiste».
«In Corea del Nord non sono riconosciuti i diritti umani fondamentali e la persecuzione prende di mira qualsiasi gruppo che sfidi il culto della personalità del governo di Kim Jong-un, pur riservando un trattamento particolarmente duro ai cristiani – ricorda il rapporto –. In tal senso, il regime può essere definito come “sterminazionista”. In Cina, dove quasi 900 milioni di persone, su una popolazione di 1,4 miliardi, si auto-identificano come aderenti a qualche forma di spiritualità o religione, il controllo da parte del governo è implacabile». A farne le spese sono le comunità cristiane dove non accettano il pieno controllo del partito- Stato, ma vale anche per i buddhisti tibetani. E Acs ricorda «l’internamento di massa e i programmi coercitivi di “rieducazione” che vedono coinvolti più di un milione di uiguri, per lo più musulmani, nella provincia di Xinjiang». Acs chiama in causa l’inazione della comunità internazionale. Solo Stati Uniti e Canada hanno parlato di «genocidi» degli Uiguri, ma «contrariamente alla Cina – ricorda il rapporto – il governo del Myanmar ha ricevuto l’ordine dalla Corte internazionale di giustizia di attuare misure per porre fine al genocidio ed è in corso un’indagine» mentre un milione di Rohingya in fuga dai rastrellamenti ha «trovato rifugio in campi dove le persone accolte sono solitamente vittime di malattie, sfruttamento, abusi sessuali e omicidi».
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