Da Avvenire del 16/01/2024
«Continuiamo, stiamo cercando di negoziare ». Così papa Francesco, nell’intervista del 4 agosto scorso alla rivista spagnola Vida Nueva, aveva risposto alla domanda sulla situazione di Rolando Álvarez, all’epoca rinchiuso nel carcere di La Modelo. Appena poche parole dietro le quali, però, si celava un interesse profondo del Pontefice per il vescovo detenuto per 528 giorni in Nicaragua. Un pastore «a cui voglio molto bene», aveva detto al termine dell’Angelus del 12 febbraio di un anno fa, subito dopo la sua condanna a 26 anni e quattro mesi per «sovversione », un uomo «molto serio, molto capace», aveva dichiarato sempre nell’intervista a Vida Nueva. Il significato pieno, però, di quel «continuiamo» è apparso chiaro solo domenica quando il pastore di Metagalpa, insieme al confratello Isidoro Mora, quindici sacerdoti e due seminaristi, è atterrato a Roma, dove il gruppo di esuli nicaraguensi è stato accolto dalla Santa Sede.
Tutti – tranne monsignor Álvarez e padre Jader Acosta – sono stati catturati nella raffica di retate realizzate dal regime di Daniel Ortega – e della moglie, nonché vice, Rosario Murillo – tra la vigilia di Natale e Capodanno. La “Navidad negra”, l’hanno definita i nicaraguensi, una decina di giorni in cui è finito dietro le sbarre un operatore pastorale ogni diciotto ore. A cominciare, il 20 dicembre, da monsignor Mora, vescovo di Siuna, “colpevole” di avere menzionato nell’omelia domenicale monsignor Álvarez e, per questo, incarcerato insieme ai seminaristi Alester Sáenz e Tony Palacios. Poi è toccato ai sacerdoti Pablo Villafranca, Héctor Treminio, Carlos Avilés, Fernando Calero, Marcos Díaz Prado, Silvio Fonseca, Mykel Monterrey, Raúl Zamora, Gerardo José Rodríguez, Miguel Mántica, Jader Hernández, Ismael Serrano, José Gustavo Sandino, Óscar Escoto. Il ruolo cruciale della diplomazia vaticana nel rilascio – evidenziato da varie fonti della Chiesa locale e da esponenti dell’opposizione – è stato riconosciuto dallo stesso governo che, in un comunicato, ha ringraziato «profondamente il Santo Padre, papa Francesco; la Segreteria di Stato, il titolare, il cardinale Pietro Parolin, e il suo gruppo di lavoro; per le rispettose e discrete gestioni ». Toni molto diversi da quelli impiegati da Ortega nel febbraio 2023 – a ridosso della condanna di Álvarez – quando aveva definito la Chiesa «una mafia», poco prima di «congelare » le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Anzi, nel testo di domenica, la presidenza ha parlato di un «dialogo franco, diretto, prudente e molto serio» che avrebbe consentito di risolvere la questione. Un riferimento implicito all’appello al dialogo fatto da Francesco a Capodanno e, poco dopo, nel recente discorso di fronte al corpo diplomatico.
L’incarcerazione e, poi, l’esilio delle figure scomode – del mondo ecclesiale o laico – è ormai parte integrante del “metodo” del duo Ortega-Murillo.
Il 9 febbraio scorso, un gruppo di 222 oppositori detenuti era stato spedito negli Usa. Proprio il rifiuto di monsignor Álvarez a lasciare il Paese gli era valso il trasferimento dai domiciliari a La Modelo. A ottobre, altri dodici sacerdoti erano stati inviati in Vaticano. Stavolta, tra gli esuli ci sono anche due vescovi che si sommano a Silvio Báez, ausiliare di Managua, costretto a riparare negli Stati Uniti per ragioni di sicurezza. In questo modo, la Chiesa nicaraguense viene privata delle sue voci più profetiche. La stessa strategia impiegata per imbavagliare l’opposizione politica e civile. Il Nicaragua diventa ogni giorno più afono.