di Michele Brambilla
Nel Vangelo Gesù raccomanda di non ostentare la propria preghiera. Elogia il «[…] silenzio della tua camera», dentro il quale interloquire con il Padre celeste in maniera semplice e diretta. Tuttavia, dice Papa Francesco durante l’udienza generale di mercoledì 13 febbraio, questo suggerimento non si trasforma mai nella visione individualista della preghiera che spadroneggia al giorno d’oggi.
Nota, infatti, il Pontefice: «C’è un’assenza impressionante nel testo del “Padre nostro”. […] Una parola che ai nostri tempi – ma forse sempre – tutti tengono in grande considerazione. Qual è la parola che manca nel “Padre nostro” che preghiamo tutti i giorni? Per risparmiare tempo la dirò io: manca la parola “io”. Mai si dice “io”». L’io moderno che, per quanto “sezionato” e lasciato in balia delle sue pulsioni dalla psicologia freudiana, non rinuncia kantianamente a rendere la propria ragione individuale metro di tutte le cose, compreso il rapporto con Dio.
«Gesù insegna a pregare avendo sulle labbra anzitutto il “Tu”, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”. Non il mio nome, il mio regno, la mia volontà. Io no, non va. E poi passa al “noi”» della comunità cristiana. «Tutta la seconda parte del “Padre nostro”», osserva Francesco, «è declinata alla prima persona plurale: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non abbandonarci alla tentazione, liberaci dal male”». Si comprende in questo modo che «[…] nonostante la preghiera del discepolo sia tutta confidenziale, non scade mai nell’intimismo. Nel segreto della coscienza, il cristiano non lascia il mondo fuori dalla porta della sua camera, ma porta nel cuore le persone e le situazioni, i problemi, tante cose, tutte le porto nella preghiera».
Il più delle volte, invece, si tende a trasformare le proprie preoccupazioni nel centro del mondo. «Se uno non si accorge che attorno a sé c’è tanta gente che soffre, se non si impietosisce per le lacrime dei poveri, se è assuefatto a tutto, allora significa che il suo cuore… com’è? Appassito? No, peggio: è di pietra. In questo caso è bene supplicare il Signore che ci tocchi con il suo Spirito e intenerisca il nostro cuore: “Intenerisci, Signore, il mio cuore”», aprilo alla considerazione dei bisogni e delle speranze dell’altro!
«Il Cristo», rimarca il Pontefice, «non è passato indenne accanto alle miserie del mondo: ogni volta che percepiva una solitudine, un dolore del corpo o dello spirito, provava un senso forte di compassione, come le viscere di una madre. Questo “sentire compassione” – non dimentichiamo questa parola tanto cristiana: sentire compassione – è uno dei verbi chiave del Vangelo: è ciò che spinge il buon samaritano ad avvicinarsi all’uomo ferito sul bordo della strada, al contrario degli altri che hanno il cuore duro».
Il Papa congeda poi la folla con alcune domande, da rimeditare nella riflessione personale: «Ci possiamo chiedere: quando prego, mi apro al grido di tante persone vicine e lontane? Oppure penso alla preghiera come a una specie di anestesia, per poter stare più tranquillo?». La preghiera “anestetico” non è, infatti, la preghiera del cristiano, bensì la caricatura che ne hanno fatto i “maestri del sospetto” otto-novecenteschi. Il rapporto personale con Dio non deve mai trasformarsi in “gnosi”, ma rimanere sul piano concreto. La Chiesa come comunità cristiana serve proprio a compiere un necessario discernimento sulle “impressioni spirituali” del singolo fedele, affinché non si trasformino in narcisismo ammantato di pseudo-teologia.