Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 165 (1989)
Sulla base di signifcative prese di posizione, un doveroso riesame dei giudizi espressi a proposito della protagonista incontrastata della vita politica dell’importante paese centroasiatico
Dopo la nomina di Benazir Bhutto
Pakistan: un primo ministro «Senza pari»
Benazir significa «Senza pari»; e, di fatto, Benazir Bhutto, il nuovo primo ministro del Pakistan — cioè di un paese di un’importanza strategica cruciale — la è, tanto che ritengo di dover rivedere le critiche e le riserve che ho espresso a suo riguardo dopo l’assassinio del presidente, generale Mohammad Zia ul-Haq (1).
Fino al mese di agosto del 1988, la figlia di Zulfikar Ali Bhutto — il presidente destituito e condannato a morte nel 1977 per abuso di potere aggravato — sembrava irrigidita nel suo ruolo di pura e semplice vendicatrice. Voleva solamente sistemare le sue pendenze? La strana coalizione che si era raccolta dietro al PPP, il suo Partito del Popolo del Pakistan, l’avrebbe condotta a instaurare un regime nel quale si sarebbero mescolate le ombre di Muammar Gheddafi e dell’imam Ruollah Khomeini, e che avrebbe operato nella direzione di un socialismo, dal quale l’Unione Sovietica si apprestava a trarre tutti i vantaggi?
Di settimana in settimana, come se la morte di Mohammad Zia ul-Haq e l’avvicinamento al potere, grazie alla sua popolarità, l’avessero improvvisamente resa consapevole di determinate realtà, i suoi discorsi e le sue decisioni hanno completamente modificato l’immagine che si era venuta costruendo nei due o tre ultimi anni. Benazir Bhutto rivelava le sue conoscenze nel campo della politica estera e la sua capacità di cogliere i problemi pakistani in modo tale che gli effetti ne sono stati immediatamente percepiti da chiunque teneva sotto controllo gli scritti e gli atteggiamenti della sinistra marxista e degli ambienti progressisti. La sinistra prendeva apertamente le distanze da lei, come appariva chiaro dalla lettura di diversi organi di stampa mondiali e dal silenzio oppure dalle riserve di molte pubblicazioni sovietiche. Per esempio, prima della tornata elettorale, che si è svolta il 16 novembre 1988, i cronisti de L’Humanité — il quotidiano del Partito Comunista Francese —, in altri tempi ditirambici nei confronti di Benazir Bhutto, affermavano già che aveva «ceduto alle pressioni imperialistiche».
Di fatto, mentre l’Afghanistan si trovava in una situazione ambigua, dal momento che le truppe sovietiche si ritiravano dal sud del paese, ma non dal nord, il candidato alla carica di primo ministro in Pakistan ribadiva con forza che, nel settore, avrebbe proseguito la politica di Mohammad Zia ul-Haq, cioè avrebbe sostenuto la completa indipendenza e la sovranità afgane e il ritiro ugualmente completo dei soldati sovietici.
Gesti e fatti significativi
Il contatto con il suo entourage permette di affermare che il primo ministro pakistano ha perfettamente identificato i pericoli che incombono sul suo paese, come pure sull’Iran, nel caso che — nonostante tutto — la pace ritorni in Afghanistan. Dal punto di vista strategico e da quello della propria immagine l’Unione Sovietica non si può permettere di abbandonare tutte le posizioni che ha acquisito in questo settore del mondo: infatti, ogni ritirata in esso comporterebbe altrove altre mosse, e l’India è legata all’URSS — che garantisce il 70% della sua forza militare — da un trattato ventennale, mentre pesa sull’Iran l’incertezza relativa al dopo-Khomeini.
Durante il mese di novembre del 1988, subito dopo la sua vittoria elettorale, Benazir Bhutto inviava a Rajiv Gandhi un telegramma, in cui affermava: «Intendo rispettare gli accordi di Simla». Infatti, ella era presente a fianco di suo padre, Zulfikar Ali Bhutto, nel 1971, al momento della firma, a Simla, degli accordi di frontiera indo-pakistani, che intendevano regolamentare la pace fra i due Stati. Diciotto anni dopo, Benazir Bhutto ha voluto coerentemente notificare per via diplomatica, addirittura prima di essere al potere, che aveva ben presenti questi impegni reciproci.
Ma soprattutto, quindici giorni prima di salire al potere, «Senza pari» aveva fatto un gesto di cui la stampa internazionale non sembra abbia rilevato la portata: ha cioè dichiarato che, una volta diventata primo ministro, avrebbe mantenuto il generale Yakub Khan al ministero degli Esteri. La conferma in questo incarico di un personaggio straordinario, che non era solo il simbolo della politica estera vigile del presidente assassinato, generale Mohammad Zia ul-Haq, ma che è profondamente rispettato da tutti i ministeri degli Esteri come pure dal corpo degli ufficiali pakistani non poteva che rassicurare almeno la maggioranza dei militari, le classi medie del paese e gli occidentali.
L’attuale capo dello Stato, Ghulam Ishak Khan, e il capo delle forze armate, il generale Mirza Aslam Beg, lo sanno, e lo sanno anche i responsabili dell’ISI, i servizi segreti.
E il senso di questi orientamenti ha staccato, a partire dal mese di ottobre del 1988, dal seguito di Benazir Bhutto una minoranza rivoluzionaria fino ad allora legata al suo personaggio, e ha suscitato sempre maggiori riserve da parte dell’Unione Sovietica, anche se «Senza pari» ha pranzato, il 29 novembre, con lo «specialissimo» ambasciatore dell’URSS, Viktor V. Iakunin, insediato in Pakistan — come ho rivelato quando la stampa non se ne occupava (2) proprio appena prima dell’assassinio del presidente, generale Mohammad Zia ul-Haq.
In questa occasione, come in tutte le altre, Benazir Bhutto ha realizzato i contatti e gli esami d’insieme necessari da autentico statista. I fondamentalisti musulmani estremisti sono furiosi per il fatto che alla guida del paese vi è una donna. I rivoluzionari preparano già i mezzi per sabotare le sue iniziative. In Afghanistan non è sistemato nulla. i fondamentalisti che si richiamano all’imam Ruollah Khomeini, nel Belucistan, fanno pendant con gli agenti del RAW, il servizio segreto indiano, dalle parti del Punjab pakistano e dove si incontrano, nel Kashmir, a Jammu, la Cina, I’URSS e I’Afghanistan, sui ghiacciai dell’estremo nord.
Poi vi è anche la situazione economica. L’India stanzia dieci miliardi di dollari all’anno per il potenziamento delle sue forze armate, anche se nessuno la minaccia, ma soltanto perché vuole essere la potenza dominante nell’Asia Centrale, con l’appoggio del suo alleato sovietico. Il Pakistan deve dunque impegnare il 34% del suo bilancio — cioè tre miliardi di dollari all’anno — per la sua difesa e per sostenere i tre milioni di afgani rifugiati nel nord e nel sud-ovest del paese. E sullo stesso bilancio gravano anche altre spese come, per esempio, i sussidi ai contadini. Inoltre, in questi ultimi otto anni, l’infrastruttura del paese ha sofferto per la situazione: le strade e i canali d’irrigazione sono da rifare, l’industria dev’essere modernizzata, e meno del 20% dei pakistani arriva a frequentare corsi di studio di livello superiore.
Per questa donna trentacinquenne, laureata in Economia e in Filosofia rispettivamente a Harvard e a Oxford, che ha molto felicemente lasciato perdere le sue tentazioni socialiste e che vuole il suo paese stabile e sovrano, quindi indipendente «dai diktat stranieri», il compito non sarà facile.
Il giorno della sua designazione a primo ministro, un addetto militare pakistano veniva accusato, in India, di spionaggio. Un giornale israeliano, di Te1 Aviv, assicurava che il Pakistan «aiuta l’Iran» per quanto riguarda le armi nucleari! Intrighi e «voci» sono destinate a continuare. Per Benazir Bhutto, la sua sicurezza personale e quella del suo paese dipendono dalla sua intesa con l’esercito. La destabilizzazione del Pakistan sarebbe drammatica, quindi si deve auspicare che il nuovo primo ministro abbia successo.
Pierre Faillant de Villemarest
Note:
(1) Cfr. il mio Pakistan: una situazione ad alto rischio, in Cristianità, anno XVI. n. 162, ottobre 1988.
(2) Cfr. ibidem.