Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 162 (1988)
La «mano di Mosca» nell’opera di destabilizzazione di un paese la cui colpa maggiore consiste nel prestare reale aiuto alla Resistenza afgana e nell’essere schierato su posizioni filo-occidentali, mentre l’opposizione progressista lavora a tutti i livelli.
Dopo l’assassinio del presidente Muhammad Zia ul-Haq
Pakistan: una situazione ad alto rischio
Il 7 agosto 1988, il CEI, il Centre Européen d’Information, in uno dei suoi telex settimanali dava la seguente notizia: «Viktor Iakunin sostituisce A.R. Vezirov come ambasciatore dell’URSS in Pakistan. Secondo i nostri archivi, dal 1969 è stato ufficiale del KGB in India, responsabile del settore indo-pakistano».
Esattamente dieci giorni dopo, il 17 agosto, un attentato faceva esplodere in volo, nel cielo del Pakistan, l’aereo C-130 che, conclusa un’ispezione congiunta a diverse istallazioni militari, riconduceva a Islamabad il presidente pakistano, generale Muhammad Zia ul-Haq, sedici suoi collaboratori — fra cui il capo di stato maggiore Akhtar Abdul Rhaman, sostenitore attivo della Resistenza afgana — nonché l’ambasciatore e l’addetto militare degli Stati Uniti nel paese.
Il dispaccio del CEI e i riferimenti in esso contenuti non volevano significare che «la mano di Mosca» fosse direttamente implicata, ma che, se il governo sovietico — dal dicembre del 1987 — aveva lasciato alla guida dell’ambasciata dell’URSS un sostituto, il fatto che ora mandasse allo scoperto un veterano del KGB per l’Asia Centrale, in veste di diplomatico, stava a significare che si aspettava importanti avvenimenti in questo settore. Viktor Iakunin non è al termine della carriera; ha lasciato l’India da qualche anno, da perfetto conoscitore delle reti d’agenti dell’URSS installate dietro le quinte in Pakistan, soprattutto nel Kashmir, a Jammu, dove si uniscono o si fiancheggiano le frontiere dell’Afghanistan, del Tagikistan sovietico, della Cina e del Kashmir indiano.
Stella Rossa, organo dell’esercito sovietico, il 3 giugno 1988 si era preoccupata per la sostituzione del primo ministro Mohammad Khan Junejo, giudicato dal presidente Mohammad Zia ul-Haq troppo accomodante nei confronti del piano sovietico di soluzione del «caso» afgano.
Il 15 agosto — poi, di nuovo, il 16 — il ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze levava pubblicamente e con forza la sua voce «contro il comportamento ostruzionistico del Pakistan a proposito del problema afgano, che l’URSS non potrà continuare a tollerare!».
Dal canto suo, la mattina del 17 agosto Rajiv Gandhi accusava direttamente il governo di Mohammad Zia ul-Haq di aiutare più che mai gli indipendentisti sikh. Per tacere dei numerosi attentati compiuti alla cieca in Pakistan, negli ultimi mesi, dagli agenti del WAD — l’ex KHAD, il KGB afgano —, con centinaia di morti e di feriti, per esacerbare i rapporti fra rifugiati afgani e popolazione locale. Come ha detto il conte Alexandre de Marenches a un intervistatore della televisione francese, che gli chiedeva la sua opinione su questo assassinio, «Il primo problema che ci si deve porre è: chi trae vantaggio dal crimine?».
Ogni attendismo americano e occidentale sarebbe tragico
La sola potenza che confina con l’Asia Centrale e fa sentire il peso del suo esercito e della sua diplomazia in questo settore è l’Unione Sovietica, che — prima dell’invasione dell’Afghanistan, nel dicembre del 1979 — tramava a tal punto in Pakistan da farmi scrivere, con due anni d’anticipo, che doveva succedere «qualcosa» fra Kabul e Islamabad… L’opposizione maggiore contro il presidente Mohammad Zia ul-Haq era allora costituita dal movimento di Benazir Bhutto, la figlia del presidente Zulfikar Ali Bhutto, che appunto il generale Zia ul-Haq aveva cacciato dal potere nel 1977, quando il paese era sull’orlo della guerra civile. E Benazir Bhutto non solo era notoriamente sostenuta dall’URSS, ma due anni dopo — quando le pedine afgane di Mosca erano al potere a Kabul — i suoi due fratelli avevano installato nella capitale afgana un centro di addestramento terroristico che — almeno per tre anni — ha formato specialisti della bomba e del mitra; e fornito agenti sia al KHAD sia, direttamente, al KGB…
Dopo l’atterraggio e l’ispezione a installazioni militari, nel momento in cui il presidente Mohammad Zia ul-Haq e il suo seguito riprendevano il loro aereo, una «delegazione» ha improvvisamente portato una cassa di manghi quale donativo e omaggio da parte dei notabili della zona. Qual- che istante dopo un’esplosione dilaniava la metà posteriore dell’apparecchio…
Poco importa che questo attentato sia stato compiuto da «allievi» dei fratelli di Benazir Bhutto oppure da altri agenti: l’uomo che maggiormente disturbava, e con coraggio, la penetrazione della sovversione sovietica in Asia Centrale è stato ucciso. Il ministro dell’Interno, Mohammad Nasim Ahir, ha immediatamente ammesso la tesi dell’attentato e ha fatto arrestare ottanta persone, fra le quali le guardie dell’apparecchio allo scalo. Già in aprile e in maggio, poi — di nuovo — alla fine di giugno, aveva avvertito il presidente che agenti del WAD afgano, legati ad altre potenze straniere, volevano togliergli la vita. Nessuna paura, aveva detto Mohammad Zia ul-Haq: «Mi affido ad Allah!».
E se quest’uomo era — a seconda dei casi — amato e detestato, è dovuto al fatto che era profondamente musulmano ma non meno profondamente filo-occidentale, e che di fronte all’orso sovietico e al suo alleato senza riserve costituito dall’India, sapeva di poter trovare un appoggio adeguato soltanto negli Stati Uniti poiché l’Europa divisa, alla ricerca più di rapporti commerciali con l’URSS e con l’Est sovietizzato che di onore e di morale, lo tollerava solamente con i toni di distacco e di sufficienza della sua diplomazia rammollita.
Nell’attuale situazione ogni attendismo americano, cioè ogni concessione senza contropartita tangibile negli affari dell’Asia Centrale, creerebbe un vuoto che inviterebbe indubbiamente l’URSS a colmarlo, approfittando della campagna elettorale che paralizza gli Stati Uniti.
Anche George P. Shultz sembra essersene reso conto, dal momento che — in occasione delle esequie del presidente assassinato — ha confermato alle delegazioni della Resistenza afgana che l’aiuto alla loro lotta non sarebbe venuto meno.
Resta il fatto che in questo paese di centosette milioni di abitanti — dei quali il 12% è sciita e tutto il rimanente sunnita — esiste una sinistra filosovietica, che sa approfittare nello stesso tempo di ogni divergenza eventuale «al vertice» e fra le etnie oppure fra le sette di uno Stato ritagliato artificialmente nel 1947, quando il governo inglese pensava di poter trarre vantaggio da questo spezzettamento. Gli sciiti filoiraniani, la minoranza costituita dalla setta religiosa degli ahmadiyyah — fondata nell’Ottocento da Ghulam Ahmad Quadyani —, i nazionalisti della provincia del Sind, gli undici partiti raccolti attorno al Movimento per la Restaurazione della Democrazia, di cui è motore il partito di Benazir Bhutto, aspettano — da adesso alle elezioni previste per il 16 novembre 1988 — ogni occasione per destabilizzare il Pakistan. Naturalmente in nome «della pace e della democrazia», come assicurava l’organo del Partito Comunista Francese, L’Humanité, il 19 agosto!
Benazir Bhutto è, dal punto di vista fisico, fuori gioco, perché — avendo sposato nel 1987 un ricco uomo d’affari del Sind, che per altro finanzia certi ambienti filosovietici — attende un figlio per il prossimo dicembre. D’altronde, non è neppure sicuro che l’alleanza fra gli undici partiti duri fino alle elezioni, poiché la scomparsa di Mohammad Zia ul-Haq ha tolto di torno quello che cementava artificialmente la loro unione.
«La farfalla d’acciaio» oppure chi altri?
Comunque, Benazir Bhutto — che qualche anno fa veniva chiamata «la farfalla d’acciaio» — si trova attualmente a fronteggiare uomini assolutamente capaci di svolgere le loro funzioni.
Vi è il presidente ad interim Ghulam Ishak Khan, la cui lunga carriera prova — negli ultimi dieci anni — la sua competenza. È stato di volta in volta ministro delle Finanze, della Difesa — durante la presidenza di Zulfikar Ali Bhutto, ma serviva lo Stato più che il suo superiore —, responsabile della Banca Centrale, poi presidente del Senato. Sorta di «vecchio saggio» — ha settantaquattro anni —, è circondato da due uomini forti: il generale Mirza Aslam Beg, capo delle forze armate, al quale non si può attribuire ambizione diversa dal servizio del suo paese, e il generale Hamid Ghul, coordinatore dei servizi segreti e perfetto conoscitore degli affari afgani, sovietici, indiani e così via. Quattro altri generali e sei civili completano il Consiglio d’Emergenza, costituito il giorno seguente l’attentato. Fra essi lo straordinario Yakub Khan, ministro degli Esteri, ex generale uscito dalla Scuola di Guerra di Parigi, diplomatico perfetto, che parla otto lingue e che è apprezzato nella maggior parte dei paesi musulmani come pure in Europa; il generale Fazli Haq, governatore della provincia del Nord-Ovest; e, infine, Mohammad Aslam Khattak, un parente del presidente Mohammad Zia ul-Haq. Dietro a loro si profila Mohammad Khan Junejo, ex primo ministro che — diversamente dal presidente assassinato e dai suoi collaboratori — voleva che i resistenti afgani accettassero il «governo di transizione» proposto da Kabul, perché prestava fede al ritiro totale dell’esercito sovietico.
Se «la farfalla d’acciaio» riuscisse a prendere il potere, il Pakistan conoscerebbe per forza un periodo di disordini. A Washington e a Londra Benazir Bhutto conta appoggi in diversi ambienti progressisti — ha studiato a Harvard e a Oxford —, che sognano di applicare il loro modello di democrazia in tutti i paesi del mondo, indipendentemente dalle differenze di mentalità, di tradizioni e di comportamenti… Speriamo che gli uomini forti di Islamabad non cedano alle pressioni e alle ingiustizie dei guru che non pagano mai per i disordini che hanno favorito con la loro incomprensione della diversità dei popoli.
Pierre Faillant de Villemarest