di Marco Invernizzi
Chiamiamoli per nome, anche se sono difficili da pronunciare e da ricordare, i sette vescovi beatificati da Papa Francesco domenica 2 giugno nel Campo della libertà, a Blaj, in Romania, un comune della Transilvania di 20mila abitanti. Sono i martiri riconosciuti di un popolo che ha subito il martirio per quattro decenni, dal 1948 al 1989, sotto il regime comunista guidato da Nicolae Ceausescu (1918-1989). Sono vescovi greco-cattolici, cioè orientali che celebrano la Divina liturgia come gli ortodossi, ma che sono in comunione con Roma, da quando nel 1699 hanno riconosciuto l’autorità del Pontefice romano.
Valeriu Traian Frenţiu (1875-1952), Vasile Aftenie (1899-1950), Ioan Suciu (1907-1953), Tit Liviu Chinezu (1904-55), Ioan Bălan (1880-1959), Alexandru Rusu (1884-1963), e Iuliu Hossu (1885-1970). Quest’ultimo è il più conosciuto, in Italia, anche perché sono state pubblicate le sue Memorie, grazie alla splendida iniziativa del curatore dell’opera, Marco Dalla Torre (EDB, 2016; cfr. anche la recensione su Cristianità, n. 389/218). Queste Memorie sono il frutto di un lungo testo che il card. Hossu scrisse in pochi giorni ai suoi fedeli negli anni della prigionia e diede a suo fratello Trian (1891-1978) perché le custodisse in attesa di una possibile pubblicazione, che avverrà in Romania soltanto nel 2003. Il fratello, infatti, era l’unico che aveva accesso al domicilio coatto cui il cardinale era sottoposto, dopo l’arresto avvenuto nel tardo 1948. Il Cardinale romeno morirà in prigionia nel 1970, ma nel corso dell’anno precedente san Paolo VI (1963-1978) lo aveva nominato cardinale nel Concistoro del 28 aprile 1969 (in pectore, perché Hossu non aveva voluto abbandonare il suo popolo perseguitato).
Il Papa è stato in Romania trent’anni dopo la liberazione dal comunismo e venti dal primo viaggio apostolico di san Giovanni Paolo II (1978-2005), avvenuto nel 1999. Certe ferite nella storia di un popolo necessitano di tanto tempo per rimarginare, perché così come nella vita degli uomini lasciano segni che solo il tempo e la Grazia di Dio possono curare. Tra l’altro, il regime comunista soppresse la Chiesa greco-cattolica imponendo a vescovi e sacerdoti di entrare in quella ortodossa, ritenuta più malleabile al potere, e così introducendo un problema di rapporti ecumenici ancora oggi difficile da affrontare. Il Papa ha ricordato il 31 maggio, davanti al Sinodo ortodosso, le parole del suo predecessore, pronunciate davanti al Santo Sinodo della Chiesa ortodossa romena vent’anni fa: «Sono venuto a contemplare il Volto di Cristo scolpito nella vostra Chiesa; sono venuto a venerare questo Volto sofferente, pegno di una rinnovata speranza» (S. Giovanni Paolo II, Discorso al Patriarca Teoctist e al S. Sinodo, 8 maggio 1999). E da parte sua, Francesco ha ricordato che esiste una «fraternità del sangue che ci precede e che, come una silenziosa corrente vivificante, lungo i secoli non ha mai smesso irrigare e sostenere il nostro cammino». Una fraternità che risale ai primi tempi apostolici, a Pietro e Andrea (che secondo la tradizione portò la fede in quelle terre), “fratelli di sangue” uniti anche nel versare il sangue per Cristo. «Qui» – ha aggiunto ancora il Papa – «avete sperimentato la Pasqua di morte e risurrezione: tanti figli e figlie di questo Paese, di varie Chiese e comunità cristiane, hanno subito il venerdì della persecuzione, hanno attraversato il sabato del silenzio, hanno vissuto la domenica della rinascita. Quanti martiri e confessori della fede! Molti, di diverse confessioni, sono stati in tempi recenti l’uno accanto all’altro nelle prigioni sostenendosi a vicenda. Il loro esempio sta oggi davanti a noi e alle nuove generazioni che non hanno conosciuto quelle drammatiche condizioni. Ciò per cui hanno sofferto, fino a offrire la vita, è un’eredità troppo preziosa per essere dimenticata o disonorata. Ed è un’eredità comune, che ci chiama a non prendere le distanze dal fratello che la condivide».
L’eredità comune, che fonda l’identità di un popolo, è il punto di partenza per ritrovare l’unità religiosa dopo mille anni di divisione e per dare al popolo della Romania di oggi « … un’anima e un cuore e una chiara direzione di marcia» – aveva detto Papa Francesco poche ore prima incontrando le autorità, la società civile e il corpo diplomatico, sempre il 31 maggio – «non imposta da considerazioni estrinseche o dal dilagante potere dei centri dell’alta finanza, ma dalla consapevolezza della centralità della persona umana e dei suoi diritti inalienabili».
Infatti, anche i popoli hanno una storia e un’anima, una identità unica e irripetibile, che va coltivata con un’opera culturale e difesa da chi vuole omologare tutto, mettendo anche i popoli al servizio di un pensiero unico che dimentica le radici. Così, «si tratta» – ha concluso il Santo Padre nel discorso alle autorità – «di sviluppare, insieme alle condizioni materiali, l’anima del vostro popolo; perché i popoli hanno un’anima, hanno un modo di capire la realtà, di vivere la realtà. Tornare sempre all’anima del proprio popolo: questo fa andare avanti il popolo».
Martedì, 4 giugno 2019