« Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” » (Lc 17,7-10).
Gesù usa qui una nuova similitudine per insegnare l’umiltà, una similitudine (parabola) che è propria del solo Luca. L’immagine doveva parlare un linguaggio chiarissimo ai contemporanei di Gesù, il linguaggio dell’evidenza. Se un uomo ha un servo incaricato del lavoro dei campi e del servizio di casa, sarebbe normale che il padrone al ritorno dal lavoro gli dicesse: « Vieni subito e mettiti a tavola »? L’ovvia risposta sottintesa è “No!”. Il servo ha il compito di svolgere il servizio della tavola per cui, dopo averlo svolto, si siede a mangiare anche lui. Questo è il comportamento normale. Il servo fa il suo dovere e non si aspetta nessun ringraziamento particolare. Se il padrone per educazione dice « grazie ! » è una bella cosa, ma non costituisce un dovuto. Così dobbiamo fare anche noi: comportarci bene perché è giusto, senza aspettarci nessuna ricompensa. Spesso questa consapevolezza è rimasta anche nel linguaggio corrente: quando un funzionario, un impiegato, un poliziotto compie qualcosa che rientra nei suoi doveri, se gli si dice (ed è sempre bello dirlo…): « grazie ! », risponde semplicemente: « dovere! ». Ascoltiamo un paio di similitudini di rabbini quasi contemporanei di Gesù. Diceva Antigono di Socho (circa 250 prima di Cristo): « Non siate come quei servitori che servono il padrone con la condizione di ricevere la ricompensa, ma piuttosto come quelli che servono senza la condizione di ricevere la ricompensa » (Mishna, Aboth I,3). Diceva Jochanan ben Sakkai (intorno al 70 dopo Cristo): « se tu hai insegnato molta saggezza, non considerarlo un merito, perché per questo sei stato educato a tua volta » (Mishna, Aboth II,8). Qual’è allora la novità portata da Gesù? Pregare e intercedere per gli altri, per coloro che non pregano, ci odiano e ci perseguitano, amarci gli uni gli altri come Gesù ci ha amati, testimoniare con la nostra vita Gesù salvatore e vittorioso sul male, questo è il “lavoro” del cristiano. Non dobbiamo aspettarci nessuna ricompensa, né alcuna riconoscenza. Anche noi dobbiamo pensare: l’ho fatto perché è il mio “lavoro”. Se Dio si serve di noi ci fa un regalo. Se Dio vuole avere bisogno di noi è per quel misterioso amore, assolutamente gratuito ed immotivato con cui ci ama. Dobbiamo rovesciare il rapporto: siamo noi che dobbiamo ringraziare Dio perché si è degnato servirsi di noi. Farci fare del bene, darcene la forza, la voglia e l’occasione è il più bel regalo che ci possa fare! Tra l’altro se ci lasciassimo conquistare da questa consapevolezza, quante delusioni ci sarebbero risparmiate… quanta pace nel nostro cuore. Se ho servito senza cercare la ricompensa ho corrisposto ad un dono, ho amato, e in questo c’è già dentro tutto, anche se il risultato del mio fare è nullo.