L’Unità si è realizzata per incorporazione forzata a uno Stato pre-unitario. È stata una crudele guerra di conquista, con centinaia di migliaia di vittime fra i civili
All’inizio del 2017 i gruppi del M5s in alcuni Consigli regionali del Sud d’Italia, e anche del Parlamento nazionale, hanno presentato mozioni per istituire il “Giorno del ricordo per i martiri dimenticati del Risorgimento”, e hanno proposto il 13 febbraio: in quel giorno nel 1861 i piemontesi espugnarono Gaeta, nella cui fortezza avevano resistito re Francesco II e la regina Maria Sofia. Poiché in Puglia la mozione a luglio è stata approvata a maggioranza, le reazioni sono passate dall’iniziale indifferenza, al più alternata allo scherno, alla vibrante preoccupazione, esito della sacralità con cui da sempre l’establishment circonda quel Risorgimento (se ne è fatto eco, fra gli altri, il Corriere): parlarne in termini pur solo parzialmente diversi dall’apologetica dominante fa gridare al sacrilegio.
Il gesto ha il limite dell’approssimazione con cui il M5s affronta qualsiasi tema. Il tema è terribilmente serio, non tollera né demonizzazioni né superficialità o strumentalizzazioni. Il paradosso è che, rispetto ai due passaggi cruciali della nostra storia nazionale – l’Unificazione e il biennio 1943-1945 –, vi è stata maggiore disponibilità, nonostante le inevitabili polemiche, a riconsiderare la vicenda della Resistenza, a coglierne l’articolazione e la complessità, a verificare le motivazioni di coloro che si schierarono con Salò, a scandagliare quei mesi tragici facendo emergere avvenimenti poco noti, con l’intreccio dei torti e delle ragioni. Nonostante non manchino studi seri e documentati, non altrettanto è accaduto finora per la vicenda che ruota attorno al 1860. Nel 2011 il 150° anniversario dell’Unificazione poteva essere l’occasione giusta, e invece è stata sprecata, perché vissuta all’insegna della doppia retorica, da un lato la riproposizione acritica e apologetica dell’evento unitario, e dall’altro il vittimismo e il rivendicazionismo.
Il punto di partenza è comprendere perché, non solo al Sud, l’Unità d’Italia non è ancora pienamente entrata nella memoria collettiva degli italiani: ne è ennesima riprova il favore incontrato nelle regioni meridionali dalla mozione M5s. Ha sicuramente inciso il modo attraverso il quale l’Unità si è realizzata: per incorporazione forzata a uno Stato pre-unitario invece che per federazione fra gli Stati pre-esistenti. È stata una crudele guerra di conquista, con centinaia di migliaia di vittime fra i civili: negarlo equivale a negare l’evidenza. Ha causato danni enormi, fra gli altri, sul piano economico; lasciamo stare slogan e libri scritti troppo velocemente, rechiamoci in biblioteca e recuperiamo documenti come il Giornale del Regno delle Due Sicilie o gli Annali civili del Regno delle Due Sicilie, e in particolare gli Annali delle opere pubbliche e dell’Architettura: scopriremo che l’economia meridionale prima dell’Unità guardava a una pluralità di settori e non pensava affatto che l’unica fonte di ricchezza fosse l’agricoltura. Esisteva quello che a buon ragione è definibile un pensiero “napoletano”, che “pensava” entro i propri confini, ma anche oltre. Vi era una realtà che, accanto a sacche di enorme povertà e di arretratezza, conosceva importanti trasformazioni economiche nell’industria tessile, metalmeccanica, in quelle che definiremmo oggi le “vie del mare”, con uno straordinario sviluppo della marina mercantile e dei traffici marittimi, e quanto alle prime reti ferroviarie: non solo la Napoli-Portici, ma pure il prolungamento dei primi tronchi ferroviari verso la costa adriatica e verso la costa jonica per collegare quei porti alla Capitale del Regno. E questo senza trascurare felici esperimenti di assistenza dei lavoratori e delle loro famiglie, con un welfare di avanguardia per l’epoca: basta ricordare la comunità di lavoro di San Leucio, alla porte di Caserta, dedita alle produzioni in seta, improvvidamente chiusa – come tante altre realtà – al momento dell’Unificazione.
Il recupero e la purificazione della memoria nazionale non ha rilievo solo accademico: serve anzitutto a comprendere qualcosa di quel che il Sud è oggi, e della sua condizione di oggettiva inferiorità rispetto al Nord dell’Italia. Serve a capire perché il Sud è diventato non un’altra Italia, ma la parte della Nazione che vede accentuati e acutizzati i problemi dell’intera Penisola. Serve quindi a individuare quel che è necessario nel 2017 – al netto di nostalgismi e di rivendicazionismi – per non crogiolarsi nell’inferiorità e per capire come mutarla. Non è un tema confessionale, ma in decenni passati dal mondo cattolico italiano sono venuti contributi importanti, anche in termini di prospettiva: a differenza di quanto accade ora. Il rischio più grave è che alla fine il Sud sia inquadrato – soprattutto in Europa – come una terra perduta nella quale sembra inutile investire, in denaro e in energie: con questo incrociando il sentimento di impotenza e di frustrazione che serpeggia in diverse comunità meridionali, facilmente strumentalizzati da chi grida più forte. Se si realizza una saldatura del genere, il Sud si ritrova privo di speranza e non sarà più in grado di mostrare le positive esperienze in ambito culturale, scientifico, imprenditoriale, civile, religioso che pure ancora ci sono. Sì, anche religioso. Interessa? Qualcuno risponde all’appello?