Un dipinto del XVII secolo raffigura Cristo che suona l’allarme sulla morte imminente. Ma è un’allerta anche sul senso della vita.
di Stefano Chiappalone
«Non potendo parlare sempre della morte, tutti i nostri discorsi sono banali», scriveva Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) in uno dei suoi aforismi più esageratamente urticanti per le orecchie dell’uomo moderno (non escluso il cristiano moderno). Che non vuol dire darsi alla tanatologia sistematica, bensì tener presente la prospettiva verso cui si aprono (e si rivelano) tanto l’apparente monotonia quotidiana quanto le gesta più gloriose. E quale tempo è più propizio per parlarne, se non il tempo liturgico aperto da quel singolare memento mori costituito dal segno delle ceneri e accompagnato dall’esplicito promemoria: «Memento homo quia pulvis est et in pulverem reverteris» («Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai»)?
A suonare la sveglia, anzi la campana, è un dipinto del tutto particolare, una sorta di versione pittorica dei “quaresimali”, ovvero le prediche tradizionalmente tenute in Quaresima: L’Albero della Vita, di Ignacio de Ries (XVII sec.), pittore fiammingo, ma operante in Spagna. La grande tela (cm 290×250) si trova nella cattedrale di Segovia e riprende un’iconografia decisamente inconsueta. Un banchetto va in scena tra le fronde di un albero: una riedizione persino surreale del “classico” verziere che troviamo nei più noti Trionfi della Morte. Anche qui i protagonisti sono tutti ignari di quanto sta per accadere e dei moniti loro rivolti. Perché il loro banchetto avrà presto fine, non appena l’albero cadrà. E «già la scure è posta alla radice» (Mt 3,10), anzi la falce, tenuta in mano dalla Morte in persona. Il tronco è prossimo a cadere mentre più in basso un minuscolo diavolo tira la fune per trarre a sé il tronco, i rami e gli sventurati protagonisti. Dall’altro lato però c’è una campanella: è Cristo a dare l’allarme, preoccupato di non perdere neanche uno di quanti il Padre gli ha affidato. Se non sentono la campana, leggano almeno i moniti che campeggiano al di sopra di loro: «Mira que te as de morir / mira que no sabes quando» e «Mira que te mira Dios/ mira que te esta mirando», ovvero: «Guarda che dovrai morire / guarda che non sai quando» e «Guarda che ti guarda Dio / guarda che ti sta guardando». Un gioco di parole destinato a imprimersi nella memoria dello spettatore.
Ma quella campana che ricorda la morte finisce per rendere i vivi ancor “più vivi”. Paradossale, ma evidente nell’arte di quelle civiltà pre-moderne che sanno tenere insieme il sarcofago e l’altare, la colonna, la volta, la torre, il campanile, che non temono di seppellire i morti nei luoghi frequentati dai vivi, che ornano, intarsiano, cesellano, infondendo nella pietra quella vitalità svanita dai corpi sepolti poco più in basso. Un paradosso che si manifesta, al contrario, nell’odierna società evoluta che accantona con cura il pensiero della morte, che non si cosparge più il capo di cenere, ma alterna momenti di piattezza ed euforia senza conoscere vitalità: cos’altro testimonia, a titolo di esempio, un’architettura che accende di insegne luminose edifici mediocri o una generazione che passa facilmente dal sentirsi “impegnata” a un diffuso vuoto di senso? Una società che, citando Seneca (4 a.C.-65 d.C.), non vuole morire e si rifiuta di vivere: «Vivere noluit qui mori non vult» (Lettere a Lucilio, 30).
Sabato, 24 febbraio 2024