di Alfredo Mantovano
Come tutti gli slogan, “aiutiamoli a casa loro” dura il tempo della polemica mediatica e non lascia nulla di concreto. A differenza di altri slogan, ha ricorrenti e residue capacità di suggestione, se il suo ultimo rilancio ha conosciuto eco – e divisioni – pure in ambito ecclesiale. Non è nuovo: quando Renzi era presidente del Consiglio lo ha tradotto nella proposta, formulata poco più d’un anno fa alla Commissione europea, del Migration compact, sintetizzabile nell’incremento degli aiuti economici e finanziari attraverso eurobond agli Stati di provenienza dei migranti in cambio di controlli più efficaci alle frontiere. Se ne è parlato in più di un vertice europeo, ma non si è andati oltre la chiacchiera.
Se si vuole che “aiutiamoli a casa loro” oltrepassi la dimensione dello slogan, il punto di partenza sono i profughi, quella fetta di migrazione che fugge da persecuzioni o da guerre. Consideriamo l’Eritrea, dal cui territorio proviene, insieme con la Nigeria, un numero significativo di persone che poi sbarcano in Italia: poiché dal 1993 essa è sottoposta a un regime totalitario che organizza la repressione interna, come funzionerebbe l’aiuto in loco? L’Unione Europea si farebbe comunicare l’iban del presidente a vita Isaias Afewerki? O invierebbe una propria missione – che è immaginabile verrebbe accolta a braccia aperte – per controllare la destinazione degli aiuti?
La corruzione dilagante
E la Nigeria, al cui interno vaste aree sono sottratte al controllo del governo e occupate da Boko Haram? Il Migration compact verrebbe adoperato per convincere la comunità di un villaggio in prevalenza cristiano ad abbellire le proprie case, o per indurre i capi di Boko Haram a fare i buoni e a non costringere alla fuga chi non accetta la sharia? Vogliamo parlare della Somalia, o del Mali, o dei tanti territori dai quali chi decide di andarsene lo fa perché altrimenti viene ucciso o, se donna, sottoposta a violenze e schiavizzata? Dunque, “aiutiamoli a casa loro” non vale per i potenziali destinatari dello status di rifugiati o della protezione internazionale, che sono all’incirca un terzo di chi arriva.
Per gli altri, un rapporto 2016 di Concord Europe, un articolato network di Ong che si occupano di migrazioni, insieme con non pochi studi sul tema, segnala che i più poveri in realtà non sono i più propensi a emigrare. Un viaggio dall’Africa centrale o dal Bangladesh in Italia costa dai 4 ai 10 mila dollari americani: chi vive nella miseria non se lo può permettere neanche dopo una vita di lavoro e di risparmio, mentre è riscontrato che lo sviluppo sociale ed economico tende a stimolare la migrazione invece che a ridurla. E poi non sempre l’aiuto allo sviluppo viaggia sui binari del freno alla migrazione irregolare: Haiti o la Cambogia sono fra le nazioni col minore reddito pro capite al mondo, ma non si segnala presenza di loro cittadini nei dati sull’immigrazione. Questo deve indurre a fermare gli aiuti nei loro confronti?
Due ulteriori elementi vanno considerati. Nemmeno nei paesi di massiccia provenienza di migranti irregolari privi di regimi totalitari tutto fila liscio: corruzione e iniqua distribuzione delle risorse esistono; siamo sicuri che gli aiuti andrebbero a destinazione e non verrebbero distratti per consolidare le élite al potere? Si inserirà fra gli aiuti l’apertura in loco di una filiale dell’Anac? Si potrebbe condizionare i fondi al loro effettivo uso per lo sviluppo: ma questo fa mettere in conto l’avvio di un contenzioso infinito e senza esiti, se i controlli ambiscono a essere seri.
La parabola del Fondo di Bruxelles
Il secondo dato è che già nel 2015 la Commissione europea ha istituito il “Fondo fiduciario per l’Africa”, avente come primo obiettivo avviare «programmi economici che creano opportunità di lavoro, in particolare per i giovani e le donne, con un’attenzione particolare alla formazione professionale e alla creazione di micro e piccole imprese». Il Fondo doveva disporre di 2,8 miliardi, ma finora gli Stati dell’Unione hanno reso disponibili solamente 378,5 milioni di euro. Alla luce di questa esperienza, si immagina di rilanciare il Fondo? Non è il caso di verificare prima la volontà politica comune di farlo funzionare? Tutto questo non per demolire un’idea, senza peraltro indicare le alternative, che pure ci sono e andrebbero vagliate. Solo per concludere che la realtà è un po’ più complessa dello slogan.
Foto Ansa – articolo tratto da Tempi.it del 23 luglio 2017