Da “Il Foglio” del 4 maggio 2017. Foto da L’Arena
Il 1° maggio è trascorso un mese esatto da quando Igor Vaclavic, detto il russo, alias Norbert Feher il serbo, ha ucciso a Budrio (Bo) Davide Fabbri, titolare del bar Gallo, nel corso di una rapina. Il giustificato clamore mediatico è stato acuito l’8 aprile, quando lo pseudo Igor ha ucciso a Portomaggiore (Fe), a qualche chilometro di distanza, la guardia ecologica volontaria Valerio Verri, che lo aveva intercettato con un suo collega, ma poi si è andato attenuando.
L’attenzione non è venuta meno fra gli abitanti della zona, che da oltre trenta giorni vivono terrorizzati dall’eventualità che il criminale si affacci nelle loro abitazioni o nei negozi alla ricerca di cibo, di denaro e di mezzi di sopravvivenza. Non è venuta meno tra le forze di polizia, impegnate nella ricerca con quantità e qualità di uomini di cui non si ha memoria in casi analoghi: circa 1.000 unità in divisa, fra i quali parà e carabinieri con esperienza in Afghanistan, i Cacciatori di Calabria, mezzi di elevata tecnologia, cambi di turno sul luogo per evitare soluzione di continuità nella ricerca, territorio suddiviso in quadranti ristretti. In un mese gli incauti iniziali annunci ufficiali di imminente cattura hanno lasciato il posto al silenzio, interrotto da qualche nuova identità del fuggitivo, o dall’attribuzione sul suo conto di altre rapine o aggressioni armate.
1. Un “criminale di serie C”? Allora perché è ancora latitante?
Sarà pure, come lo ha descritto pochi giorni fa sul Fatto Marco Forte, pm di Bologna che coordina le operazioni in zona, “un criminale di serie C. Uno che fino a pochi mesi fa girava per le campagne, dormiva nei ruderi e rubava il gasolio ai trattori. Che faceva colpetti da 200 euro”.
Ma inquadrarlo in questi termini per un verso non rassicura, per altro verso non dà conto del fatto che da più di trenta giorni un soggetto cosi tiene in scacco un sistema di ricerca folto e complesso. Non è fuori luogo chiedersi per quali ragioni non se ne viene a capo, nonostante il territorio interessato non sia né la montagna al confine tra Pakistan e Afghanistan né l’Aspromonte, ma un insieme di acquitrini e di zone cespugliose: non agevoli ma neanche impossibili da perlustrare.
Porsi questa domanda non vuol dire disconoscere il lavoro dei carabinieri, e di chi con loro collabora nell’operazione, né l’elevato profilo delle unità ivi dislocate. Sarebbe ingeneroso per due ragioni:
a) il rischio è elevato: il fuggitivo non esita a uccidere di fronte alla prospettiva della cattura. Pure sotto questo profilo le dichiarazioni di Forte qualche perplessità la lasciano: “Igor non è uno che ammazza per piacere, ha sparato – per quanto ne sappiamo noi – soltanto quando si è trovato intrappolato. Quando Fabbri in pratica lo stava arrestando, e quando le guardie venatorie l’hanno beccato”. Forse è il caso di prenderlo prima di cercare le motivazioni dei suoi crimini;
b) si tratta di unità e di corpi del sistema sicurezza che, quando si sono occupate di fronti più difficili – terrorismo in primis -, hanno mietuto e mietono successi importanti. Questo però rende ancora più necessario chiedersi che stia succedendo.
2. Quando la tecnologia non aiuta.
Senza pretesa di spiegazioni esaurienti, il primo elemento che può fuorviare è la tecnologia: sensori, intercettazioni, droni a volontà, e non si conclude nulla? E’ che la tecnologia dà risultati se vi è una sorta di simmetria fra chi cerca e chi è cercato: riesco a capire dove stai, con gli strumenti sofisticati di cui dispongo, se tu adoperi mezzi corrispondenti, quindi – per esempio – se possiedi uno o più telefoni cellulari, i cui segnali, pur se non attivi, siano intercettatili. Se invece vivi come un selvaggio, riposi in tane improvvisate, e non comunichi con nessuno, la tecnologia diventa assai poco utile. Nella storia patria recente è viva la memoria di un capomafia di nome Bernardo Provenzano, la cui latitanza è durata non un mese ma 43 anni; è ben vero che all’inizio non esistevano i mezzi di avanzata tecnologia che ci sono adesso, che permettessero di seguirlo e di arrestarlo, ma ben presto essi sono arrivati. Le sue comunicazioni escludevano l’uso di telefoni, fissi o mobili, e si basavano sui “pizzini”, i suoi spostamenti – tranne rare deroghe – erano minimi, al momento della cattura aveva un vecchio televisore che ascoltava con le cuffie per evitare che il suo rumore fosse captato da qualcuno.
Certo, contava su una rete di copertura fittissima, che gli ha garantito la sopravvivenza alla macchia per tanto tempo, ma alla fine è stata proprio l’individuazione dei suoi più stretti che ha permesso di avvicinarsi al luogo – a 3 km dal suo paese, Corleone – nel quale trascorreva la latitanza. Non evoco Provenzano per dire che lo pseudo Igor resterà alla macchia per un tempo analogo, bensì solo per constatare che tecnologia e pizzini non giocano lo stesso campionato: per Provenzano è stata la decriptazione dei pizzini non i droni o le intercettazioni – a fornire una traccia utile per catturarlo. Igor peraltro non usa neanche quelli, pur non disponendo delle complicità del boss di Corleone.
3. Forze di polizia: capaci contro il terrorismo, inadatte contro un ladro dì gasolio?
Circa l’indiscussa professionalità delle nostre forze di polizia, essa finora ha avuto modo di svilupparsi nella pienezza delle potenzialità sul fronte della prevenzione, e in settori individuati come strategici quali il terrorismo e la criminalità di tipo mafioso. E’ difficile redigere statistiche sui crimini evitati grazie allo stretto raccordo e allo scambio informativo fra i differenti corpi di polizia; è certo che per la prevenzione il sistema sicurezza, nel rispetto della legge, gode di una autonomia nella operatività, e prima ancora nella individuazione degli obiettivi, che non possiede sul fronte della repressione.
Non è frutto del caso, e non dipende certamente dalle Procure di volta in volta interessate: nessuno dubita della dedizione delle Procure della Repubblica di Bologna e di Ferrara nelle indagini sullo pseudo Igor. E’ invece un dato strutturale.
Nel codice di procedura penale vigente fino al 1989 l’attività di repressione era impostata in modo parzialmente diverso: le indagini venivano svolte, con una discreta autonomia, dalla polizia giudiziaria; il pubblico ministero o il giudice istruttore esercitavano su di esse un vaglio di giuridicità, e ne prospettavano l’esito al giudicante. Col codice di procedura penale introdotto nel 1989 – e con le modifiche che esso ha conosciuto negli anni seguenti – la polizia giudiziaria ha perduto quell’autonomia, le indagini sono dirette fin dall’inizio dal pm: costui è diventato il dominus della repressione criminale, colui che decide su che cosa indagare, su chi indagare, su come indagare, sui tempi e sulle priorità di una indagine rispetto all’altra. In più d’una Procura della Repubblica si individuano periodicamente dei criteri di priorità, ma ciò non fa che confermare che da quasi trent’anni il pm sia diventato il soggetto che concorre a stabilire, spesso in modo determinante, la politica di risposta all’aggressione criminale.
4. La sicurezza? un sistema nel quale tutto si tiene e nessun mezzo è decisivo da solo.
In questa acquisita centralità del pm non vi è solo la vanificazione di fatto della obbligatorietà dell’azione penale, sostituita da ciò che la singola Procura talora il singolo pm ritiene più importante da perseguire. Vi è pure la progressiva desuetudine di modalità di indagine connesse a reati la cui repressione non viene ritenuta prioritaria. Se si ritiene che al maggior impegno nel contrasto, per esempio, al terrorismo, alla criminalità mafiosa e alla corruzione debba corrispondere un minore utilizzo di tempo e di risorse nella repressione di furti, rapine ed estorsioni, è inevitabile che gli strumenti che ordinariamente valgono per individuare i colpevoli di questi reati siano sempre meno adoperati. Ciò ha delle conseguenze. E’ fuori di dubbio che la chiamata di correo (in cambio di sconti di pena e di benefici di vario tipo), e in generale la collaborazione da parte del mafioso “pentito”, abbiano peso enorme nella disarticolazione dei clan. Altrettanto “pesante” è il contributo che il contenuto di comunicazioni – telefoniche o mail o “di ambiente” – intercettate rivesta per contrastare il terrorismo, le mafie e le corrottele.
Il problema è avere spesso conferito a tali strumenti di acquisizione delle prove carattere esclusivo e risolutivo, senza cercare conforto in altri strumenti di indagine. L’aver costruito processi fondandosi solo sulle dichiarazioni di “pentiti” ha causato in più giudizi il crollo delle impostazioni dell’accusa.
Fondare oggi larga parte di indagini relative a vicende di enorme rilievo istituzionale e mediatico su conversazioni intercettate fa correre il medesimo rischio: soprattutto se il pm si attiene alla mera trascrizione, o addirittura alla sintesi del brogliaccio, e ritiene di non dover ascoltare direttamente le stesse comunicazioni. In questi casi il corto circuito è completo: un pm dominus delle indagini, al punto che ogni passo della polizia giudiziaria deve essere da lui autorizzato, poi non si preoccupa di valutare in prima battuta snodi significativi delle stesse indagini, e si acquieta su quanto gli viene trasmesso. L’esperienza consolidata mostra che la più fedele delle trascrizioni non è mai in grado di rendere il senso autentico di quel che si dice: e quando arriva il momento di confrontare il significato che per le indagini ha assunto una espressione con il senso che si riceve dall’ascolto di essa, arrivano le sorprese, e conclusioni fino a quel momento indiscusse vanno in crisi. Identico discorso vale per il valore risolutivo conferito all’esame del Dna. Lasciare ai margini la repressione della criminalità ordinaria – e i mezzi adeguati per contrastarla -non fa male solo al livello standard di sicurezza e alla percezione di quest’ultima: ha effetti, per quanto sintetizzato finora, sulla dimestichezza con metodi di indagine che mantengono una loro efficacia, dai pedinamenti alla cura di chi fornisce informazioni pur senza mai emergere oltre l’area dei confidenti, dal raccordo fra testimonianze alle osservazioni e agli appostamenti. Ha ricadute sulla credibilità del sistema: lo pseudo Igor sarà pure “un criminale di serie C”, ma se una squadra di serie C mette in scacco le prime squadre della serie A, queste non fanno una splendida figura. Se ti interessi solo di mafia e terrorismo (che non vi è dubbio debbano restare le priorità) e trascuri i delitti quotidiani può capitare che “uno che fino a pochi mesi fa girava per le campagne, dormiva nei ruderi e rubava il gasolio ai trattori” e “faceva colpetti da 200 euro” diventi un pericoloso pluriomicida, ricercato inutilmente per settimane. Senza trascurare che il profilo dei terroristi che emerge più di recente è quello di soggetti che esordiscono col crimine che non viene perseguito – furti e piccolo spaccio di droga e da quest’area di impunità di fatto lì viene reclutato per il salto di qualità.
Per concludere:
a) il sistema sicurezza si tiene secondo una logica d’insieme, se ne trascuri una parte ti trovi a disagio anche su quelli che hai selezionato come obiettivi prevalenti;
b) se desideriamo – come accade oggi per Budrio e dintorni – che le forze di polizia mostrino sul fronte della repressione professionalità ed efficienza pari a quella che rivelano sul piano della prevenzione, va cercato un riequilibrio fra i poteri della polizia giudiziaria e quelli del pm;
c) puoi tirar fuori dal cilindro droni, cimici superpotenti, esami di Dna perfetti, ma nessuno di essi diventerà mai la bacchetta magica, soprattutto se tutto questo per una eterogenesi dei fini si ritorce in una limitazione dell’intelligenza e delle potenzialità della polizia giudiziaria, e se recepisci acriticamente gli esiti di quei superaccertamenti senza operare la tua autonoma valutazione. Possiamo considerare queste elementari ipotesi di lavoro delle banali provocazioni. Se però non ci soddisfa che dopo un mese Igor alias Norbert sia ancora a piede libero, almeno proviamo a chiederci perché accada.
Alfredo Mantovano