Da “Il Mattino” del 3 aprile 2017. Foto da Tuiris
Una settimana dopo il pestaggio e l’omicidio di Emanuele Morganti, ad Alatri, un altro ventenne, Yaisy Bonil-la, di origine colombiana, perde la vita, questa volta per un accoltellamento, alle porte di Brescia.
Il primo era stato tirato fuori di notte da un locale dove la droga circolava senza ostacoli. Il secondo è stato ucciso alle 6 di mattina all’uscita da una discoteca. Uno dei due presunti responsabili della morte di Emanuele era stato arrestato il giorno precedente l’omicidio perché trovato con centinaia di dosi di droga, e rimesso in libertà dopo poche ore perché il giudice aveva ritenuto lo stupefacente finalizzato al «consumo di gruppo». Non è azzardato immaginare che la droga abbia a che fare pure con la furia che ha portato ai decesso di Yaisy: quando – come pare essere avvenuto in entrambi i casi – non emerge un intento immediatamente omicidiario, bensì una lite che degenera, l’aver fatto uso di quelle sostanze è di regola l’elemento che, eliminando ogni inibizione, rende più facile passare dal cazzotto al coltello o alla spranga, e quindi dalla lesione all’assassinio.
La due tragedie vanno in carico di chi materialmente ha tolto la vita a Emanuele e a Yaisy. Ma è veramente impossibile non ascriverle in quota parte allo sciagurato decreto-legge la cui conversione fu imposta al Parlamento con voto di fiducia dal governo Renzi tre anni fa.
Quelle disposizioni: a) hanno ripristinato l’anti-scientifica distinzione fra droghe c. d. pesanti e droghe cd. leggere con sanzioni molto più lievi per il traffico e lo spaccio di queste ultime; b) hanno reintrodotto la possibilità di detenere stupefacenti senza limiti individuabili con precisione, se la sostanza è «per uso personale», con la prova dell’uso «non personale» posta a carico di chi fa le indagini; c) ha reso di fatto impossibile arrestare nella flagranza dello spaccio, se quest’ultimo appare «di lieve entità», essendo stata abolita l’obbligatorietà dell’arresto medesimo. Una parte della giurisprudenza ci mette del suo: rende superflua la legalizzazione, perché la sancisce già in concreto: quando nelle ordinanze e nelle sentenze l’«uso personale» viene sommato fra più soggetti, perfino lo spaccio di centinaia di dosi attenua la sua gravità, e il «consumo di gruppo» diventa l’aberrante qualifica di tale sommatoria.
La droga è tanta – questa è la logica -, ma poiché verrà parcellizzata fra più individui, fa meno male, e merita la diminuente dell’«uso personale». Il bilancio tre anni dopo quella legge è terribile, poiché è passato il messaggio che ci sono droghe che non producono danni, altrimenti perché le si chiama «leggere»? , e quindi è giusto sanzionarne lo spaccio in modo simbolico. Così lo spaccio, se realizzato con furbizia, è diventato attività simile a quella del venditore di sigarette di contrabbando di 30 anni fa; una volta permesso solo l’arresto facoltativo in flagranza, quale agente di polizia rischia il rimbrotto del pm di turno per aver condotto lo spacciatore in camera di sicurezza?
A questo disastro si aggiunge l’effetto in senso lato culturale della proposta di legalizzare lo spaccio delle droghe «leggere» incardinata in questo momento alla Camera: l’assioma che non procurano danno trova conferma, altrimenti perché le si «legalizza»?
Il quadro si completa con la concreta tolleranza da parte di tanti proprietari di locali, discoteche o comunque di intrattenimento: se lo Stato si sbraca, perché devo farlo io, perdendo clienti che pagano l’ingresso e le consumazioni, come pagano le dosi che circolano senza che io lo impedisca?
Il problema non si risolve chiudendo per qualche mese una discoteca, come ogni tanto prova a fare questore di buona volontà: il singolo provvedimento ci può stare, ed è bene che venga adottato, quando ve ne sono i presupposti. Anni fa l’associazione di categoria dei gestori di questi locali firmò, in sede nazionale e sul territorio, protocolli contenenti impegni precisi, in analogia con quel che negli stessi anni accadeva nel inondo del calcio: come le società calcistiche decidevano di fare la propria parte accollandosi i costi della formazione e del servizio interno allo stadio degli steward, così i titolari delle discoteche accettarono di munirsi di filtri di sicurezza – all’accesso al locale e dentro – per evitare l’ingresso e la diffusione delle droghe di vario tipo.
Qualcosa del genere va ripreso e rilanciato, nell’ottica della non criminalizzazione di tutti gli operatori del settore, e anzi di riattivare una fattiva collaborazione, di recente affievolita: se vi è quest’ultima gli interventi sanzionatori sugli inadempienti saranno ancora più giustificati. Non è solo questione di gestori dei locali o di legge cambiata.
Vi è un grande problema di educazione familiare e di formazione a scuola. Ma chi ha un briciolo di onestà intellettuale, di fronte alla moltiplicazione di episodi come quelli da cui sono partito, che vanno in parallelo al crescere di incidenti stradali, anche gravi, la cui causale resta inspiegabile fino a quando non si esamina il sangue di chi è andato a schiantarsi contro un albero o non ha tenuto conto della curva, non può negare che oggi lo sballo incontra meno ostacoli. Invece di ripensarci, proseguiamo il percorso di morte con una bella legalizzazione?
Alfredo Mantovano