Sui princìpi non negoziabili e sui dossier più negoziati è stato un presidente ottimo. Joe Biden promette invece sciagure
di Marco Respinti
Il 3 novembre gli Stati Uniti d’America eleggeranno il prossimo presidente federale. Si sfidano Donald J. Trump, in carica, per il Partito Repubblicano, e Joe Biden, per il Partito Democratico, ex vicepresidente. Visto il ruolo che gli Stati Uniti hanno nel mondo, sarà un giorno importante per tutti. Ebbene, i due rivali stanno agli antipodi e la loro è una delle sfide più “calde” in decenni, forse la più “calda” in assoluto. Ma in che cosa differiscono?
Grazie anche a riduzioni fiscali importanti, l’Amministrazione Trump ha impresso al Paese una crescita economica enorme che è stata fermata soltanto dalla pandemia del CoViD-19. La crescita ha prodotto ricchezza diffusa (non è vero che ne abbiano tratto beneficio solo “i ricchi”) e ridotto significativamente la disoccupazione, ai minimi storici dopo un cinquantennio. Questo è stato particolarmente vero per i settori più disagiati della società, in specie gli afro-americani, i latinos e le donne. Non sono pochi, infatti, gli osservatori che, a poche ore dal voto, richiamano l’attenzione sul favore, crescente, che Trump raccoglie fra i neri. La crescita dell’economia statunitense ha poi subito una battuta di arresto appunto a causa del virus venuto dalla Cina, ma nemmeno i critici di Trump più severi contro la sua gestione della pandemia possono seriamente imputare a lui la diffusione di quel male. E comunque l’economia americana è ora nuovamente in rialzo.
Biden si propone invece di rimettere in campo quella politica assistenzialistica che costa cifre enormi ai contribuenti americani, ma che soprattutto è fallimentare. La “guerra alla povertà” fu lanciata a metà degli anni 1960 del presidente Democratico Lyndon B. Johnson (1908-1973) con lo slogan-programma «Great Society». Dopo mezzo secolo e molti milioni di dollari spesi, la povertà di parecchi settori della società americana è ferma allo stesso punto di allora, se non peggio, come notano alcuni commentatori. Le periferie delle grandi città sono ghetti del malaffare e della criminalità e manca completamente l’apporto della cellula base della società che argina e frena il disastro: la famiglia, distrutta da quella contro-cultura che della “rivoluzione sessuale” ha fatto una bandiera e di cui il Partito Democratico di Biden è stato grande fautore e fomentatore. Biden presidente ripeterebbe insomma quegli stessi errori economici e sociali, gettando solo benzina sul fuoco.
Negoziati e princìpi non negoziabili
Sull’immigrazione Trump ha avuto sempre e solo una stella polare: arginare l’immigrazione clandestina e l’illegalità che essa si porta dietro in tema di droga, violenza, magari terrorismo. Si può lecitamente non essere d’accordo con tutti i modi da lui adottati per mirare a questo scopo, ma nessuno può negare che gli Stati Uniti di Trump restino il primo Paese del mondo quanto a numero di stranieri accolti.
All’estero, poi, la “dottrina Trump” non è affatto stata l’isolazionismo agitato come uno spettro dai suoi avversari alla vigilia del voto del 2016, bensì lo sforzo di limitare il più possibile l’impegno estero. Il contesto internazionale mutato, e alcune condizioni più favorevoli, hanno consentito a Trump di limitare il numero dei confronti armati e quindi lo spreco di vite umane in guerra, pur però ottenendo risultati significativi contro il terrorismo internazionale di matrice islamista. E la pace a cui ha guidato Israele e parte crescente del mondo arabo forse gli varrebbero quel Premio Nobel che però, un mondo avverso, non gli tributerà mai.
Al contrario, Biden incarna lo spirito della “guerra continua per mettere fine a tutte le guerre” come classicamente i suoi predecessori Democratici, e l’antisionismo-antisemitismo che attraversa la Sinistra lo paralizza sullo scacchiere mediorientale.
Sui princìpi non negoziabili, quindi, quelli che, a differenza di altri, non possono essere discussi, Trump ha letteralmente dato il meglio di sé. Come i propri predecessori che avevano a cuore la vita ha negato i fondi pubblici statunitensi alle politiche sovranazionali che sponsorizzano l’aborto nel mondo, ma ha pure fatto di più in molte occasioni. Di queste quelle più clamorose sono state il superamento d’imperio, attraverso un ordine esecutivo (un “decreto”) dello stallo con cui il Congresso teneva in ostaggio una legge importante, quella che impone al personale medico di prestare tutte le cure necessarie ai bambini che nascessero scampando a un aborto. Una cosa che si direbbe ovvia, ma il mondo in cui viviamo ritiene invece ovvio il contrario.
La sua Amministrazione ha poi promosso e concluso il maggior accordo internazionale della storia a difesa della famiglia naturale, e quanto Trump si impegna a fare per vita e famiglia nei prossimi quattro anni, qualora venisse rieletto, è stato messo nero su bianco in pubblico con una lettera importantissima indirizzata al mondo pro life che pure chiede un sano “voto di scambio”.
L’estremismo radicale
Per contro Biden ritiene l’aborto un diritto intoccabile, opponendosi al divieto di finanziare l’aborto all’estero con i soldi dei contribuenti statunitensi, non ritenendo che le posizioni sull’aborto siano un discrimine fondamentale nella selezione dei giudici federali, rifiutandosi di estendere ai bimbi non ancora nati la tutela sanitaria, nonché votando affinché le minorenni possano recarsi in Stati più “aperti” per abortire senza il consenso dei genitori, contro l’obbligo di notificare ai genitori di quelle minorenni l’avvenuto aborto fuori porta, contro la criminalizzazione dell’eventuale danno arrecato a un bimbo nel ventre materno durante un’altra azione criminale, a favore della pratica dell’aborto nelle basi militari, a favore della distribuzione di contraccettivi per gli adolescenti, a favore dell’estensione della ricerca sulle cellule staminali che comporti la soppressione di embrioni umani e a favore della rimozione del divieto alla clonazione umana.
L’avere Biden scelto Kemala Harris come candidato alla vicepresidenza è del resto un segnale nettissimo. La Harris è infatti una nota pasionaria di aborto e ideologia gender, stando a Biden quanto il vicepresidente Mike Pence sta a Trump. Pence assicura infatti la liaison con il mondo conservatore ed è, per quest’ultimo, garanzia sugli orientamenti della Casa Bianca. La Harris lo è specularmente rispetto al mondo del radicalismo ideologico, dietro a cui marciano gli estremisti, Antifa e altri, che da mesi mettono a ferro e fuoco il Paese. Trump lo sa e ha scelto Pence per questo, Biden ha fatto lo stesso volendo la Harris.
Sì, sul gender Trump ha certamente dimostrato meno lucidità che sull’aborto, ma al contempo, al momento giusto, non ha mai arretrato. Un esempio su tutti (ma non è il solo): si oppone strenuamente all’«Equal Act», che invece Biden ha promesso di firmare il primo giorno di presidenza qualora venisse eletto, avendolo il Congresso a maggioranza Democratica approvato nel 2019. E l’«Equal Act» imporrebbe a un’impresa qualsiasi di assumere anche personale di orientamento opposto a quello del titolare. Per esempio, una organizzazione pro life sarebbe tenuta a mettere a libro paga anche un attivista per l’aborto.
Scrivere la storia
Questa sua fermezza ricorda peraltro quella con cui ha difeso, dentro e fuori gli Stati Uniti, la libertà religiosa, in soccorso dei cristiani perseguitati nel mondo, facendo la voce grossa, e non solo grossa la voce, contro la Cina neo-post-nazional-comunista che perseguita ogni religione (la stessa Cina con cui invece Biden è in affari danarosissimi) e difendendo dall’applicazione dell’«Obamacare», la riforma della Sanità voluta dal presidente Barack Obama, tutti quei soggetti cui verrebbe invece imposto di pagare ai propri dipendenti contraccezione, aborto e sterilizzazione. Per esempio, alle Piccole Suore della Carità, difese strenuamente dall’Amministrazione Trump fino alla sentenza a loro favorevole davanti alla Corte Suprema federale.
E mentre Biden sta seriamente pensando di aumentare a dismisura il numero dei giudici di detta Corte Suprema, oggi nove, in modo da neutralizzare ogni orientamento conservatore di quell’assise, Trump ha proceduto a selezionare tre giudici conservatori di grande professionalità e di moralità specchiata, Neil M. Gorsuch, Brett M. Kavanaugh e soprattutto Amy Coney Barrett pochi giorni fa. La storia gli ha offerto una occasione da record (tre giudici del massimo tribunale nazionale in meno di quattro anni) e Trump ha nominato figure che faranno la storia. Le presidenze, infatti, Trump o Biden, Trump e Biden, passano, ma i giudici della Corte Suprema, da cui passano le decisioni più importanti quanto alla costituzionalità delle leggi varate dal Congresso, restano in carica a vita. Per questo è importante che Trump venga rieletto e che con lui venga eletto un Congresso (il 3 novembre si rinnovano anche tutta la Camera e un terzo del Senato), l’organo federale che scrive le leggi, a maggioranza Repubblicana. Solo così questa storia importante, decisiva, può continuare.
Lunedì, 2 novembre 2020