di Marco Invernizzi
Pensare di affrontare 50 anni di storia italiana e una strage come quella di piazza Fontana a Milano in poche migliaia di battute può apparire incoscienza pura. E infatti non è questa assolutamente la mia intenzione.
Tuttavia da 50 anni e in particolare in questi giorni la strage del 12 dicembre 1969 viene utilizzata per “distrarre” nella lettura della storia italiana da ciò che invece cercò di cambiare ed effettivamente mutò profondamente le caratteristiche di fondo del Paese. E allora un cenno mi sembra necessario.
Questa “distrazione” cominciò immediatamente, dal giorno successivo alla strage, nelle assemblee studentesche e poi sulla stampa e quindi nei libri che racconteranno la storia di piazza Fontana: una strage organizzata da pezzi deviati dello Stato, appaltata al mondo del neo-fascismo, per innescare una “strategia della tensione” che impedisse lo spostamento a sinistra dell’Italia.
Ora io non entro nel merito della strage, che è stata oggetto di inchieste giudiziarie ripetute, e oltretutto non è questo il mio scopo. Posso solo dire che se quella sopra riassunta fosse stata l’intenzione di chi organizzò la strage, si è riversata contro lo scopo per cui era stata concepita: non si fa il male per ottenere un presunto bene, e anche ammettendo che la strage fosse stata un incidente non voluto dagli attentatori, è la stessa nozione di attentato che deve essere condannata perché intrinsecamente malvagia e sovversiva.
La mia riflessione invece vuole attirare l’attenzione su alcuni fatti accaduti prima e dopo il 12 dicembre e verso quale direzione ideologica si è voluto portare l’Italia a partire da quegli anni, i cosiddetti “anni di piombo”.
Infatti, non si deve dimenticare che alla fine del 1969 in Italia è in corso un processo rivoluzionario che si proietta su due fronti, quello politico con il terrorismo, e quello antropologico con la rivoluzione culturale tuttora in corso.
Se il terrorismo è stato sconfitto, sia nella versione comunista che in quella neo-fascista, la rivoluzione antropologica ha continuato fino ai nostri giorni, raccogliendo importanti risultati legislativi (divorzio, aborto, droga, unioni civili, dichiarazioni anticipate di trattamento e molto altro), ma soprattutto cambiando radicalmente il costume e il modo di pensare e di vivere degli italiani.
Tuttavia, il fatto che il terrorismo sia stato sconfitto non deve farci dimenticare che allora, nel 1969 e ancora per parecchi anni dopo, nessuno poteva essere sicuro della sua sconfitta. Per questo è fuorviante ogni ricostruzione che non ricordi come prima della strage di Milano fosse già penetrata nel corpo sociale quell’ideologia a cui si appoggerà il terrorismo e che produrrà effetti che rimarranno a lungo anche dopo il 12 dicembre.
Prima. Per fare un solo esempio, già negli Anni Sessanta, una banda che prendeva il nome dal suo capo, Pietro Cavallero (che in carcere troverà la fede cattolica e chiederà perdono), aveva ucciso e rubato per anni allo scopo di finanziare una rivoluzione comunista. Pochi giorni prima della strage, in novembre, era stato assassinato durante una manifestazione delle sinistre a Milano l’agente di polizia Antonio Annarumma, giovane irpino di 22 anni, e a tutt’oggi i suoi assassini non sono stati identificati. Era spaventoso il clima che si respirava nelle città soprattutto del Nord, nelle scuole e nelle università, un clima dominato dalla violenza anti-fascista che toglieva il diritto di manifestare le proprie opinioni a chi era ritenuto un nemico del popolo perché anticomunista. Il protagonista di quegli anni era l’odio, un odio che si respirava e penetrava nei cuori, soprattutto dei giovani, un odio ideologico, di classe e rivolto contro ogni autorità, rivolto anche contro lo “Stato borghese”, che doveva essere “abbattuto”, e contro i suoi “servi”, un odio che generava spesso un odio contrario, che portò tanti giovani impressionati dal clima di profonda ingiustizia presente nelle scuole e nelle università ad abbracciare l’ideologia fascista senza conoscerla, semplicemente per reagire contro chi attribuiva loro continuamente questa etichetta.
Anche dopo la strage del 12 dicembre, non si può dimenticare, per fare soltanto un esempio, un importante editore milanese, Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) di cui era nota la propensione per la lotta armata come strumento indispensabile per fare la Rivoluzione comunista, morto sotto un traliccio alle porte di Milano mentre cercava di innestare una bomba. Il clima avvelenato è continuato a lungo e altre stragi e altre violenze hanno insanguinato il Paese almeno fino all’omicidio di Aldo Moro (1916-1978), che segna l’inizio della fine del terrorismo rosso.
Se non viene raccontata correttamente questa storia, i giovani non capiranno nulla del passato e quindi non saranno in grado di prendere le decisioni giuste nel presente. Se non si spiega come effettivamente uno spaventoso clima di violenza al servizio dell’ideologia comunista, nelle sue diverse espressioni sovietica o cinese, ha attraversato l’Italia per decenni, uccidendo centinaia di persone, ferendone molte di più nel corpo e nell’anima, se non viene tentata questa operazione di verità denunciando anche la violenza di chi reagì a tanta barbarie usando lo stesso stile, difficilmente riuscirà a crescere una generazione capace di comprendere le radici del presente.
L’ondata violenta finalmente finì, ponendo termine a una vera e propria guerra civile, e si esaurì anche, nel 1989, l’ideologia che l’aveva patrocinata.
Ma non è andata così per l’altra faccia (quella culturale ed esistenziale) della rivoluzione che si richiama all’anno in cui esplose, il Sessantotto. E oggi, 50 anni dopo, siamo ancora alle prese con i suoi effetti devastanti.
Mercoledì, 11 dicembre 2019