Finora ci si è occupati dei giornalisti che divulgano intercettazioni. Ma il vero problema sta nella fonte
Partiamo da tre dati obiettivi. Il primo: a parole pochi negano che la divulgazione di brani, sintesi o trascrizioni integrali di conversazioni intercettate prive di rilievo penale, o addirittura prive di attinenza alle indagini, abbia assunto da decenni connotazioni selvagge. Può capitare che – nonostante le affermazioni di principio- taluno sulla scena politica utilizzi pezzi di intercettazioni, ma il tempo è galantuomo: prima o poi viene il suo turno, si rende conto di quanto fa male, e pretende come gli altri che il sistema cambi. Il secondo dato obiettivo: l’esigenza c’è, ma il testo no. E’ un po’ come la nuova legge elettorale. Nel disegno di legge sul processo penale la riforma delle intercettazioni è contenuta in una delega al governo, con l’indicazione di criteri non particolarmente stringenti. Immaginiamo che diventi legge prima dell’estate (ci vuole molta immaginazione): vuol dire che su un tema così cruciale la definizione del testo vero avverrà a legislatura scaduta, senza una discussione reale, col semplice passaggio per un parere – se ci si riesce – dalle commissioni competenti: un po’ poco. Non è detto che l’incertezza dipenda esclusivamente dalla difficoltà di conciliare posizioni antitetiche: se fosse così, sarebbe incoerente col coro unanime di richieste di modifica. Una significativa concausa del blocco è l’obiettiva difficoltà a trovare un punto di equilibrio fra le indagini, l’onorabilità e la privacy, e prima ancora l’altrettanto obiettiva difficoltà a individuare filtri non aggirabili. Vi è un terzo dato. La conversazione intercettata può essere diffusa senza ragione o perché viene passata ai media illegalmente, o perché viene comunque usata a sostegno di provvedimenti giudiziari, per es. una ordinanza di custodia cautelare. In entrambi i casi arriva al giornalista perché il magistrato che ne dispone o la consegna in prima persona, o permette che altri alle sue dipendenze la girino, o la inserisce fra gli atti soggetti a deposito. Il nocciolo della questione non è quindi colpire il giornalista: è come impedire che avvenga la trasmissione degli atti. Finora la discussione ha riguardato il confezionamento di filtri, ma si rischia di finire come per la legittima difesa: qualsiasi rettifica della norma non impedisce né il trauma del processo per chi si è trovato di fronte a un aggressore, né l’arbitrio interpretativo. E se si affrontasse la questione nell’ottica della piena assunzione di responsabilità da parte del capo dell’ufficio giudiziario? Mi spiego. Come tutti sanno, nel 2006 sono intervenute significative modifiche nell’ordinamento giudiziario; una di queste ddl n. 106, rende evidente il tratto funzionalmente gerarchico del procuratore della Repubblica. Costui – dice l’art. 1 c o. 2 – “assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio”; “con l’atto di delega – art. 2 co. 2 – per la trattazione di un procedimento (…) può stabilire i criteri ai quali il delegato deve attenersi nell’esercizio della stessa“; “può determinare – art. 4 – i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria“; cura – art. 5 – “i rapporti con gli organi di informazione”, vigilando su improprie divulgazioni di notizie. Qualche procuratore della Repubblica – pochi, per la verità – ha adottato nel proprio ufficio circolari sulle intercettazioni, per disciplinare, fra l’altro, l’uso dei brogliacci o l’eliminazione delle conversazioni non rilevanti. Queste iniziative non hanno dato risultati del tutto soddisfacenti, ma segnano un punto di inizio, e segnalano che l’assunzione di una responsabilità sul punto è possibile. Il passo successivo potrebbe essere il seguente: poiché ogni quattro anni – e poi dopo due quadrienni ai fini della assunzione di altri incarichi direttivi – il procuratore della Repubblica è sottoposto a una valutazione da parte del Csm, per l’esito positivo di essa si potrebbe rendere esplicito e “pesante”, ovviamente con norma di legge, che quell’ufficio non sia stato protagonista di indebite propalazioni. Non è una responsabilità oggettiva, ed è qualcosa di più di una culpa in vigilando. Intanto è un modo per indurre ogni capo di Procura ad adottare chiare direttive sulle intercettazioni (la stessa nuova norma potrebbe prevederlo); se le violazioni ci fossero egualmente sarebbero sintomo di scarsa efficacia dello strumento adottato, con conseguenze per la permanenza a capo di quell’ufficio, ovvero di infedeltà da parte del pm o della polizia giudiziaria: che però a quel punto sarebbe preciso dovere/interesse del procuratore individuare per non pagare al posto di altri. Non è una soluzione infallibile. Ma è lo sforzo di sforzo di spostare il tiro dalla ricerca di un maggior rigore normativo sulle regole procedurali delle intercettazioni – finora non ha dato risultato, e con i tempi residui della legislatura rischia di non darne più – al rafforzamento del profilo deontologico, con una tipizzazione di comportamenti. Senza entrare nel terreno della libertà di stampa e delle fonti, ma rendendo “la” fonte per eccellenza, per lo meno quanto alla individuazione del titolare dell’ufficio, il soggetto chiamato a esercitare le proprie responsabilità.
Alfredo Mantovano
Da “Il Foglio” del 23 maggio 2017. Foto FanPage