Molteplici esperienze dalla letteratura al rito richiedono un progressivo introdursi e un successivo decantare, a immagine della vita e della storia.
di Stefano Chiappalone
Alla morte di Re Elessar, avvenuta il 1° marzo 1541 della Quarta Era, «[…] Legolas costruì nell’Ithilien una barca grigia, discese il corso dell’Anduin e traversò il Mare; con lui pare vi fosse Gimli il Nano. Quando quella barca si allontanò, finì di esistere la Compagnia dell’Anello». L’ultimo viaggio verso le Terre Immortali è anche l’ultimo atto di quella storia iniziata in maniera ben più prosaica, cui siamo stati introdotti molte pagine prima parlando di erba-pipa e alberi genealogici (che ricorrono poi nuovamente nelle Appendici finali). Sono il prologo e l’epilogo de Il Signore degli Anelli, dello scrittore inglese John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973).
Parti tutt’altro che trascurabili, non semplici aggiunte posticce “tanto per iniziare” o “tanto per finire”, e nemmeno paragonabili a una “prefazione” e a una “postfazione” che si possono omettere senza pregiudizio per la lettura. Tant’è che non di rado, alla successiva edizione di un libro, la prefazione e la postfazione originali vengono integrate, aggiornate, sostituite o persino tralasciate. Sarebbe invece un delitto letterario anche il solo pensiero di amputare l’opera tolkieniana del Prologo o delle Appendici, che ne sono parte integrante.
Un progressivo introdursi e un successivo decantare sono essenziali quando ci si accinge a immergersi in un’esperienza, più che limitarsi a una mera lettura informativa; quando tra le pagine si intraprende un viaggio. Una scansione, quasi un’iniziazione, che è immagine della vita stessa: perché non limitarsi a vivere un’unica fase di maturità, la sola apparentemente “produttiva”? Perché non risparmiarsi l’apparente “spreco” degli anni che precedono la cosiddetta età di ragione e quelli finali in cui, se la ragione resta, le forze declinano? Non sarebbe più “funzionale” vivere un’unica vita da “adulto”? Perché il bambino e il vecchio sono rispettivamente il prologo e l’epilogo dell’esistenza umana: il primo prende gradualmente confidenza con il mondo, il secondo ne prende congedo; il primo apprende a vivere, il secondo lascia decantare ciò che ha appreso e vissuto.
Portali, atri, vestiboli altro non sono che prologhi architettonici; cupole, torri, e campanili ne sono gli epiloghi da cui si scorge ciò che abbiamo attraversato. Buona parte dell’architettura sacra conosce il sagrato e il nartece, quale “anticamera” verso il luogo del compimento, nell’abside; ma sulla controfacciata era spesso dipinto un Giudizio universale, che si stagliava davanti agli occhi di chi usciva quale supremo epilogo. La stessa struttura dei riti prevederebbe non un culto “mordi e fuggi”, ma una graduale immersione (e riemersione) nei (e dai) sacri misteri. Nella liturgia tradizionale non ci si trova d’un colpo alle letture, né di corsa verso casa con ancora il Santissimo in corpo. Anch’essa prevede una introduzione, con il salmo Iudica me e il doppio Confiteor preceduto da varie invocazioni, che accompagnano l’ascesa del sacerdote all’altare; e si conclude con il paradosso di un prologo che si fa epilogo, quell’incipit del Vangelo di Giovanni che riconduce al Prologo di tutto, in cui tutto si riassume: «In principio erat Verbum».
Sono i riti, l’arte e la letteratura che hanno plasmato uomini e civiltà di ampio respiro, capaci di inquadrare anche la Cronica contingente tra la Genesi e l’Apocalisse, tra il prologo e l’epilogo della storia: antidoto da riscoprire per sollevarsi al di sopra di quella “dittatura del presente” che pretende di elevare a dogma qualsiasi moda (politica, ecclesiale o culturale che sia) destinata a esaurirsi nel corso di una manciata di anni.
Sabato, 20 maggio 2023