di Valter Maccantelli
Putin è il nuovo re di Siria, In Siria è il momento della Russia: a titolare in modo tanto roboante non sono i media di propaganda del Cremlino, ma The Wall Street Journal e la CNN. In politica l’ingenuità è un peccato mortale, quindi è doveroso premettere che la prima ragione di tale enfasi risiede nella volontà di una parte del sistema massmediatico statunitense di mettere in cattiva luce il presidente Donald J. Trump in vista della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del novembre 2020.
Al netto di queste meno che nobili ragioni interne, la notizia ha più di un fondo di verità. Adesso che la situazione sul campo vive un momento di parziale stallo ‒ all’ombra di una tregua fragilissima ‒ cominciano a emergere alcuni elementi di sfondo, che permettono di ipotizzare chi sia a guadagnare e chi a perdere nel rimestio del calderone siriano messo in atto dalla Turchia.
La Russia e il suo presidente sono certamente fra i soggetti geopolitici in attivo, ma, per cogliere il valore di questo benefit, bisogna partire dall’inizio della storia ben più che dai fatti di questi giorni.
Mosca ha deciso di intervenire direttamente in Siria nel settembre del 2015 a sostegno dell’esercito del presidente Bashar al-Assad nello scontro con le forze antigovernative, sempre più egemonizzate dalle fazioni ultra-fondamentaliste e dall’ISIS, che stavano per sopraffare il regime di Damasco. Si è trattato del più grande impegno delle forze armate russe, allora sovietiche, dopo il ritiro dall’Afghanistan nel 1989, messo in campo ‒ oltretutto ‒ in un Paese non direttamente confinante.
I rischi e le fatiche politiche sono stati anche maggiori: il superamento della “sindrome afghana” che aveva indotto un senso di frustrazione non molto diverso da quello seguito alla Guerra del Vietnam (1955-1975) per gli Stati Uniti; il rischio di vedere lo jihadismo mediorientale risalire il Caucaso verso il mainland russo; la reazione delle monarchie sunnite del Golfo Persico; l’aggravarsi dei problemi già presenti per i fatti di Crimea, Ucraina e Donbas con le relative sanzioni euroatlantiche in corso.
È legittimo chiedersi perché Vladimir Putin abbia deciso di pagare un conto così salato, apparentemente per sostenere un alleato come al-Assad di cui non si fidava neppure tanto, e verso il quale avrebbe potuto continuare con la tradizionale e meno impegnativa politica delle semplici forniture militari.
Quella del 2015 è stata una scelta strategica, che, usando il Medio Oriente come oggetto tattico, aveva come obbiettivo il riposizionamento della Russia sulla scena globale. Forse è stato questo il principale punto di svolta nella strategia geopolitica di Putin dalla sua ascesa al potere nel lontano 1999.
L’impegno in Siria, proprio perché esterno al perimetro del suo estero vicino, proprio perché a sostegno di un alleato in bilico, proprio perché in uno dei teatri più insidiosi del mondo, ha inteso sancire la definitiva emancipazione della Russia dalle aspettative di riconoscimento del proprio status di potenza da parte di Stati Uniti ed Europa. Coerentemente con l’atavica sindrome da isolamento del mondo slavo continentale, Putin ha deciso insomma di fare da solo. Be’, non proprio da solo, dato che in quest’avventura ha raccolto per strada il cosiddetto “club degli esclusi” del quale sono soci fondatori anche Iran e Cina.
In politica estera prima del 2015 Putin non era riuscito a rompere il guscio che lo relegava nello stereotipo di erede di un sistema statale sconfitto dalla storia e di disturbatore di professione del nuovo ordine mondiale. Nel 2013 il presidente statunitense Barack Obama, nel corso di una conferenza stampa, ebbe a dichiarare che Putin «sembra un ragazzino annoiato seduto in fondo alla classe»: se mai questo giudizio è stato veritiero, certamente sul finire del 2019 la situazione è oramai molto diversa.
Oggi la Russia parla con tutti e tutti parlano con la Russia: Egitto e Turchia, Arabia Saudita e Israele, Siria e curdi, e perfino Iran e Arabia Saudita. Paesi divisi su molti temi, ma che non disdegnano di dialogare tra loro attraverso Mosca.
Un chiaro esempio di questa rinnovata postura è offerto in queste ore dal cosiddetto accordo di Sochi, in Russia. Anche in questo caso la prudenza è d’obbligo, perché, al là delle dichiarazioni ufficiali, bisognerà verificarne l’attuazione sul campo. Se è vero che la Turchia ha negoziato con gli Stati Uniti d’America il via libera all’iniziativa e la stipula della prima tregua, quando si è trattato di stabilizzare la situazione sul terreno, dopo aver raggiunto la maggior parte degli obiettivi, Recep Tayyip Erdogan si è rivolto a Putin, fino a quel momento rimasto piuttosto nell’ombra.
Mosca sembra aver ottenuto dalla Turchia l’impegno alla cessazione definitiva dell’iniziativa bellica, l’accettazione della presenza di truppe regolari siriane e il pattugliamento congiunto con la polizia militare russa nella sua zona di sicurezza. Dalla Siria, poi, il riconoscimento dello status quo, oltre all’impegno a rispolverare il vecchio accordo di Adana (1998) con Ankara, che regolava anche la presenza curda nell’area. Dai curdi l’impegno a ritirarsi da tale zona di sicurezza. Da tutte le parti in gioco l’incarico fiduciario di coordinare il trasferimento di una parte dei profughi siriani presenti in Turchia. Tutte cose che fino a una settimana fa gli attori coinvolti rifiutavano categoricamente in un dedalo di veti incrociati.
Anche in questo caso bisogna rifuggire dall’ingenuità: se realizzato, questo accordo è tutt’altro che perfetto e racchiude dosi enormi di pragmatismo politico del quale si apprestano a fare le spese sia i curdi sia i profughi siriani, e non basta sicuramente a cancellare la scia di sangue che il conflitto si porta dietro da anni. Ma è semplicemente ‒ se lo è ‒ l’unica alternativa alla guerra civile attuale.
Putin sa benissimo che Ankara non abbandonerà mai la NATO e che Riad o Tel Aviv non saranno mai alleati suoi come lo sono degli Stati Uniti, ma, proprio mentre la sua stella si sta un po’ offuscando in patria, sul tavolo dell’azzardo mediorientale oggi il mazziere è senza dubbio lui.
Venerdì, 25 ottobre 2019