Ricorre quest’anno il 90esimo anniversario della lettera enciclica Quadragesimo Anno di S.S. Pio XI, pubblicata nel 1931 per commemorare i 40 anni dalla celebre enciclica Rerum Novarum di S.S. Leone XIII. Si riprende il tema della questione sociale «senza chiedere aiuto alcuno né al liberalismo né al socialismo, dei quali l’uno si era mostrato affatto incapace di dare soluzione legittima alla questione sociale, l’altro proponeva un rimedio che, di gran lunga peggiore del male, avrebbe gettato in maggiori pericoli la società umana».
di Maurizio Milano
Il 1931, anno di pubblicazione dell’enciclica Quadragesimo Anno di S.S. Pio XI, si situa in un contesto storico profondamente mutato rispetto al 1891, quando venne promulgata la Rerum Novarum di Papa Leone XIII. Nei diciassette anni precedenti, infatti, si erano susseguiti dei veri e propri cataclismi: la Prima guerra mondiale (1914-1918), inizio della «guerra civile europea», secondo la celebre definizione dello storico Ernst Nolte (1923-2016); la rivoluzione bolscevica in Russia (1917); l’avvento del fascismo in Italia (1922); il forte progresso delle industrie seguito però dal crollo di Wall Street e dall’inizio della grande depressione nel 1929; la costituzione e la crisi della Repubblica di Weimar (1918-1933) che si sarebbe conclusa con l’avvento al potere di Adolf Hitler (1889-1945) e l’instaurazione del regime nazionalsocialista. Era finito un mondo e ne iniziava un altro, caratterizzato dall’avanzata di quelle vere e proprie “religioni secolari” costituite da nazionalismi e regimi totalitari, mentre la secolarizzazione iniziava a logorare delle società ancora profondamente religiose. Lo scontro, a livello politico, era tra i vecchi regimi liberali e i nuovi totalitarismi, caratterizzati dalla ricerca utopica della società perfetta, dalla creazione dell’uomo nuovo, mentre inizia a formarsi la «società di massa», ben descritta dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955). Il mutato contesto storico pone quindi nuove e gravi sfide al magistero sociale della Chiesa.
La Quadragesimo Anno esordisce richiamando i grandi benefici dell’«enciclica Leoniana, provenuti alla Chiesa e all’umana società», nel quarantennio intercorso dal 1891, grazie anche a una maggiore attenzione ai lavoratori da parte dei pubblici poteri e all’apporto di quegli «ausiliari della Chiesa» che avevano contribuito ad approfondire e a divulgare, a vari livelli, la nuova «sociologia cattolica» (20), anche al di fuori del mondo cattolico, facilitandone un’«applicazione pratica» a beneficio del mondo del lavoro, a partire dagli operai e dai più deboli e bisognosi, dando vita a sempre nuove corporazioni e associazioni di «mutua assistenza» (24). La Rerum Novarum viene additata da Papa Ratti come la «Magna Charta dell’ordine sociale» che, attingendo alla «sorgente sempre viva e vitale» del Vangelo può «mitigare almeno in gran parte quella lotta esiziale e intestina che dilania la famiglia umana» (39).
Pio XI prosegue chiarendo che «sebbene l’economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggino sui principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in nessun modo dipenda dal secondo. Certo, le leggi, che si dicono economiche, tratte dalla natura stessa delle cose e dall’indole dell’anima e del corpo umano, stabiliscono quali limiti nel campo economico il potere dell’uomo non possa e quali possa raggiungere, e con quali mezzi; e la stessa ragione, dalla natura delle cose e da quella individuale e sociale dell’uomo, chiaramente deduce quale sia il fine da Dio Creatore proposto a tutto l’ordine economico» (42), e quindi solo obbedendo alla legge morale «tutti i fini particolari, tanto individuali quanto sociali, in materia economica perseguiti, si inseriranno convenientemente nell’ordine universale dei fini, e salendo per quelli come per altrettanti gradini, raggiungeremo il fine ultimo di tutte le cose, che è Dio, bene supremo e inesauribile per se stesso e per noi» (43).
Pio XI riprende e riconferma l’insegnamento Leoniano sul diritto di proprietà, richiamandone l’«indole individuale e sociale», da tenere insieme per evitare le opposte derive dell’«individualismo» e del «collettivismo», affermando che «il diritto del dominio privato viene largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia perché, grazie a tale istituto, i beni del Creatore, essendo destinati a tutta l’umana famiglia, servano veramente a questo fine; il che in nessun modo si potrebbe ottenere senza l’osservanza di un ordine certo e determinato» (45). Pur riconoscendo il diritto dello Stato a regolamentare l’uso della proprietà, il pontefice ammonisce che «s’ingannano invece ed errano coloro che si studiano di sminuire talmente il carattere individuale della proprietà, da giungere di fatto a distruggerla» (48), riaffermando i punti già chiariti da Papa Pecci sul dovere delle pubbliche autorità di mantenere «intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché l’uomo è anteriore allo Stato», e di «non aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata. Poiché non derivando il diritto di proprietà privata da legge umana, ma da legge naturale, lo Stato non può annientarlo, ma semplicemente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune» (49). Il pontefice auspica poi la più ampia partecipazione possibile, anche delle classi sociali più umili, alla moltiplicazione della ricchezza resa possibile dalle nuove industrie, sia per garantire la stabilità e la serenità delle famiglie sia per consentire «un’efficace difesa dell’ordine pubblico e della tranquillità sociale contro i seminatori di novità sovversive» (64).
Nella Quadragesimo Anno si trova la prima formulazione magisteriale del “principio di sussidiarietà”, uno dei cardini della Dottrina sociale della Chiesa insieme al “bene comune” e alla “solidarietà”: l’armonia ti tali princìpi è essenziale affinché possa svilupparsi dal basso, a partire dalla famiglia, una società sana e articolata in corpi intermedi, all’interno di un quadro giuridico-istituzionale definito dallo Stato: «È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle» (80).
Pio XI riprende anche il tema dell’importanza delle «corporazioni», già evidenziato da Leone XIII, in base al diritto naturale di associazione e nella prospettiva di favorire la «giustizia e le esigenze del bene comune» (86), ricordando che «l’uomo ha libertà non solo di formare queste associazioni che sono di ordine e di diritto privato, ma anche di introdurvi quell’ordinamento e quelle leggi che si giudichino le meglio conducenti al fine» (88). In merito all’economia, Pio XI afferma la necessità che «torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo […] e tali sono la giustizia e la carità sociali [con] un ordine giuridico e sociale a cui l’economia tutta si conformi» (89). Avendo presente l’ordinamento “corporativo” del regime fascista, imposto dall’alto anziché sviluppatosi spontaneamente e liberamente dal basso, Pio XI esprime il timore che «lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che […] possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale» (96).
Pio XI afferma poi che la «restaurazione e il perfezionamento dell’ordine sociale, non potrà essere attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell’ordinamento è già da gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti dall’egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il crescente numero della moltitudine, i quadri di quell’ordinamento, o perché, traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione» (98).
Sulle trasformazioni in atto a seguito dell’industrializzazione, Pio XI lamenta la crescente «concentrazione della ricchezza» e del potere nelle mani di pochi (105), con collusioni tra il potere economico e quello politico, che alimenta le tensioni tra gli stessi Stati (108). In particolare, si evidenzia che «alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica», con dei «danni gravissimi» per la «deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa» (109). La denuncia si estende poi all’«imperialismo economico» e all’«internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (109).
Importante poi la conferma della condanna della «natura empia e ingiusta del Comunismo» (112), anche nelle sue forme meno estremiste (116), ribadendo che il «socialismo, sia considerato come dottrina, sia considerato come fatto storico, sia come “azione”, se resta veramente socialismo […] non può conciliarsi con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Giacché il suo concetto della società è quanto può dirsi opposto alla verità cristiana» (117), visto che ne esclude ogni riferimento ultraterreno (118). Il giudizio non ammette dubbi: «Socialismo religioso e socialismo cristiano sono dunque termini contraddittori: nessuno può essere buon cattolico ad un tempo e vero socialista» (120).
I richiami al diritto di proprietà privata nella sua duplice funzione, individuale e sociale, alla libertà di associazione, al principio di sussidiarietà e ai limiti della pubblica autorità, che non deve fagocitare la società civile, sono di grande attualità nel frangente storico che stiamo attraversando, dove si prospettano modelli sociali, economici e politici di governance decisi dal centro e dall’alto, che rischiano di superare gli stessi Stati nazionali e di frammentare sempre più compagini sociali già duramente provate.
Martedì, 26 ottobre 2021