Da Avvenire del 25/06/2024
Un’attesa durata più di quarant’anni, dodici dei quali trascorsi anche in carcere. Nella provincia cinese dello Yunnan, tanto dovette aspettare padre Giacomo Huang Guirong prima di poter essere finalmente ordinato sacerdote nel 1995. Il suo volto e la sua storia sono riaffiorati in questi giorni in occasione della morte di questo prete, avvenuta all’età di 93 anni. Testimonianza di quella fedeltà che ha tenuto vivo il cattolicesimo in Cina anche negli anni più bui della persecuzione comunista.
Si parla molto in queste settimane della Chiesa in Cina e delle sue prospettive. L’occasione è un importante anniversario che si sta celebrando: quello del Concilio di Shanghai, il primo (e finora unico) Concilio della Chiesa cinese, che nel 1924 sotto la guida profetica dell’allora delegato apostolico, monsignor Celso Costantini – indicò la strada di un’evangelizzazione libera dalle ambiguità dei protettorati coloniali, partendo proprio dall’idea della valorizzazione del clero cinese e della cultura locale. Dopo un importante convegno tenutosi alla Pontificia Università Urbaniana in maggio – nel corso del quale anche papa Francesco ha voluto inviare un suo messaggio – nei prossimi giorni sull’eredità del Concilio di Shanghai si rifletterà anche in Cina, a Macao, in un altro simposio promosso dalla locale Università di San Giuseppe.
Figure come quella di padre Huang Guirong aiutano a non perdere di vista il contesto di questa riflessione, che – pur riconoscendo le ombre dei nazionalismi di ieri – non può prescindere da quanto accadde dopo. Cioè dal martirio e dalla testimonianza forzatamente nascosta offerta da migliaia di cattolici in Cina nella seconda metà del Novecento.
Come padre Huang, appunto: era un seminarista adolescente quando nel 1949 arrivarono i comunisti a Kunming; lo mandarono a lavorare come operaio in un’officina per le automobili. Ma il suo impegno nell’apostolato non doveva essere diminuito, se nel 1966 – quando in Cina si scatenò la nuova tempesta della Rivoluzione culturale – fu tra i primi a finire in carcere. Uscì solo nel 1978 per essere rimandato di nuovo a lavorare. E nello Yunnan raccontano che a metà degli anni Ottanta, ai tempi delle prime “aperture” del regime comunista, lui ricominciò subito a parlare del Vangelo dalla sua falegnameria. Dopo aver custodito per tanti anni il seme della sua vocazione, poi, il 4 giugno 1995 nella cattedrale di Zhaotong, poté finalmente essere ordinato per mano del vescovo monsignor Matteo Chen Muchen, allora 92enne. E in questi quasi trent’anni ha svolto il suo ministero in un’estrema periferia della Cina, rispettato da tutti pur in un contesto difficile segnato anche nello Yunnan dalle prove di forza dell’Associazione patriottica, l’organismo cattolico “ufficiale” controllato dal Partito.
La storia di padre Huang riassume in qualche modo tutte quelle di una generazione eroica, che per evidenti motivi anagrafici va ormai scomparendo in Cina. Sacerdoti, ma anche suore che negli anni Cinquanta furono forzatamente rimandati a casa con la chiusura dei conventi fondati dai “missionari stranieri”. Anche loro custodirono intatta la propria vocazione per decenni. E quando dalla fine degli anni Ottanta fu di nuovo possibile, tra mille equilibrismi e con il sostegno di qualche vescovo “ufficiale”, hanno ridato vita alle proprie comunità, aggregando intorno a sé ragazze di trenta o quarant’anni più giovani.
Hanno tenuto viva la fede nella tempesta, al di là di ogni ideologia. E anche nella Cina di oggi continuano a mostrare che non gli slogan politici, ma la fedeltà di un cuore libero sono l’unica via possibile per il Vangelo.